La storia delle collettività umane è scandita da coincidenze dallo strano valore simbolico. Che l’aggressione russa dell’Ucraina ci abbia risvegliato dal nostro lungo letargo geopolitico a settant’anni esatti dalla firma del trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED, 27 maggio 1952) è senza dubbio una di queste.
Lungi dall’essere pacifisti e irenisti post-storici alla maniera di certi leader e maître à penser degli ultimi decenni, i padri dell’Europa unita, primo tra loro Alcide De Gasperi, furono dei “realisti cristiani” con un senso acutissimo della tragicità della storia, che avevano del resto sperimentato sulla loro pelle.
Essi capivano dunque bene come un’unione anche politico-militare, e non solo giuridico-economica, dell’Europa fosse, a lungo andare, un presidio indispensabile della libertà appena riconquistata e un viatico imprescindibile di quell’unità euro-occidentale tanto desiderata ma ancora tutta da costruire.
Questa consapevolezza torna oggi di bruciante attualità perché la guerra d’Ucraina chiude per molti aspetti il lungo ciclo storico di disimpegno strategico dell’Europa aperto proprio dal fallimento della CED nel 1954 e superato solo a parole dallo sviluppo d’una, quanto mai anemica, politica europea di sicurezza e difesa a partire dagli anni Novanta. A ben guardare, il mondo del 2022 somiglia in effetti più a quello pericolosissimo del 1950, quando la guerra di Corea esasperò le tensioni trai due blocchi e consolidò gli assetti della guerra fredda, che non a quello del 1954, quando, morto Stalin, s’intravedevano già i primi segnali di coesistenza pacifica.
Lo storico anglo-americano Niall Ferguson ha giustamente notato che la seconda Guerra Fredda, nella quale con ogni probabilità siamo entrati, stranamente appare come un’immagine speculare della prima: allora la Russia, la potenza principale, aveva la Cina come junior partner, mentre oggi i ruoli sono invertiti; la prima guerra calda scoppiò allora in Asia (Corea), proprio come oggi è esplosa in Europa (Ucraina), entrambi teatri secondari delle rispettive guerre fredde, che si spera non deflagrino mai in tutta la loro incandescenza, potenzialmente apocalittica.
Proprio in ragione di questa misteriosa analogia dei corsi e ricorsi storici, l’esperienza della CED ci è particolarmente vicina, e lo spirito che l’animò può offrirci almeno tre insegnamenti preziosissimi nel contesto attuale.
Il primo riguarda la struttura dell’Alleanza Atlantica. Quasi tutti atlantisti di ferro che consideravano gli Stati Uniti come alleati indispensabili nella resistenza globale al comunismo, i sostenitori della CED intendevano però bilanciare la strabordante egemonia americana nell’Alleanza con un polo politico-militare europeo forte, capace di pesare più dei singoli paesi nelle grandi scelte strategiche dell’Occidente. Pur restando strettamente collegata alla NATO e operativamente subordinata ad essa, nel lungo periodo la CED avrebbe potuto dar corpo a quell’autonomia strategica che ancor oggi rappresenta poco più di un miraggio per l’Unione Europea (UE).
Lo spirito della CED ci aiuta dunque ad immaginare un’alleanza Atlantica rinnovata come partnership più equilibrata tra due poli di potenza, quello americano ed europeo, strutturati ed autonomi, e non invece condannata a restare per sempre un legame asimmetrico, in cui a benevola tutela corrisponde spensierata subordinazione.
Il secondo insegnamento riguarda la questione tedesca, eterno cardine della storia europea. La prima CED nacque dal bisogno d’imbrigliare il riarmo tedesco, richiesto a gran voce da Washington proprio allo scoppio della guerra di Corea, in un robusto quadro d’integrazione sovranazionale. Si riteneva allora che un riarmo tedesco nel solo quadro della NATO, un’alleanza tra paesi sovrani, non avrebbe offerto sufficienti rassicurazioni rispetto al pericolo di uno stato nazionale tedesco ricostituito in tutta la sua potenza nel cuore dell’Europa.
Ora, al principio della Seconda Guerra Fredda, la caldissima guerra d’Ucraina ha portato anch’essa a piani tedeschi di riarmo senza precedenti dalla seconda Guerra Mondiale. A differenza dei primi anni Cinquanta, però, essi non sono stati proposti dagli alleati, ma annunciati unilateralmente da una Germania riunificata, non più sotto occupazione militare e tornata nell’ultimo decennio al ruolo di potenza economicamente egemone e politicamente centrale che da (quasi) sempre le è proprio nello spazio europeo. Lo spirito della CED deve dunque indurci ad incanalare senza indugio queste energie in una struttura sovranazionale adeguata che le metta al servizio dell’intera Unione (e soprattutto, pur senza dirlo troppo ad alta voce, sotto la sua tutela). Oggi come allora il solo quadro NATO non fornisce garanzie adeguate.
Da ultimo, il terzo insegnamento riguarda la forma politico-costituzionale dell’unità europea. L’art. 38 del Trattato istituente la CED prevedeva che la sua Assemblea parlamentare si costituisse in Assemblea costituente per redigere un progetto di costituzione “federale o confederale” per l’Europa dei Sei. Proprio Alcide De Gasperi si batté come un leone, tra lo scetticismo dei ministri degli esteri, a favore di quest’articolo, che assicurava uno sbocco federale alla nuova comunità.
Contrariamente a ciò che si sente spesso dire, è probabile che una federalizzazione dell’integrazione europea in questo suo primo stadio avrebbe fondato una comunità politica più equilibrata, meno centralistica e più rispettosa delle prerogative nazionali dell’Unione attuale. Federalizzare avrebbe infatti significato trasferire un numero limitato di grandi competenze strategiche, tra cui, presumibilmente, difesa e politica estera, a istituzioni sovranazionali pienamente legittimate ad esercitarle, mantenendo invece tutto il resto nella disponibilità esclusiva dei singoli stati nazionali.
Invece, il metodo funzionalista di integrazione, privilegiato dopo il fallimento della CED, si è basato sulla progressiva condivisione della sovranità in un numero sempre più vasto di ambiti, a partire da quelli apparentemente meno controversi dell’economia e del mercato. Nei decenni, siamo così giunti alle disfunzioni dell’Unione attuale, una specie di confederazione alla rovescia, debolissima nelle fondamentali materie di tradizionale competenza federale (per esempio la difesa), e pervasivamente intrusiva in ambiti che le federazioni compiute lasciano volentieri alla cura degli stati membri (per esempio la dettagliata regolamentazione economico-sociale e, in misura crescente, quella dei valori e degli stili di vita).
Anche per questo, nel 2022 ci sarebbe un gran bisogno di riscoprire lo spirito della CED e il federalismo sussidiario di stampo degasperiano che l’animava, a noi tanto lontani eppur tanto vicini.