(articolo pubblicato originariamente su Istituto Treccani)

Settanta anni fa, il 27 maggio del 1952, venivano firmati a Parigi gli accordi relativi all’istituzione della Comunità europea di difesa (CED). Lo scoppio della Guerra di Corea nel giugno del 1950 aveva aperto l’ipotesi di un conflitto su due fronti: in Asia e in Europa. Da ciò la spinta a costruire una difesa europea più solida, nella quale inserire a pieno titolo la Germania.

Le sfide di oggi spingono a riflettere su quella vicenda, a partire dal testo di quel Trattato, presentato al Parlamento da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, vero protagonista dei negoziati che aveva seguito personalmente ricoprendo dal 1951, anche il ruolo di ministro degli Esteri.

La relazione al disegno di legge [1] esordisce ricordando «la presente situazione politica, così gravida di incognite per l’occidente europeo e per tutto quello che esso rappresenta nella civiltà e nei valori spirituali nel mondo».  La risposta è non «un’alleanza militare di tipo tradizionale, ma un organismo al quale gli stati partecipanti hanno trasferito una parte dei loro poteri sovrani (…) Forze armate comuni (non coalizzate ma integrate) ed un bilancio comune».  

«Come indicato nel nome stesso, la comunità ha obiettivi esclusivamente difensivi, obiettivi enunciati nel preambolo e precisati nei primi articoli del Trattato» ‒ prosegue la relazione ‒ «essa coopera strettamente con l’organizzazione del Trattato Nord Atlantico» (una cooperazione cui sono dedicati vari articoli e un intero protocollo).

Uno degli scopi che il governo italiano «confida venga raggiunto con gli accordi in questione è quello di conseguire che gli obiettivi militari comuni imposti dalle esigenze di difesa siano raggiunti in forma più economica di quel che non sarebbe possibile perseguendo separatamente gli stessi obiettivi (principio fissato nel preambolo ed enunciato in varie disposizioni del Trattato a partire dall’art. 3): il che sarà conseguenza dell’impiego più razionale delle risorse di ciascun paese nonché dell’allargamento dei mercati di produzione e di consumo (…). Ciò significa ‒ prosegue la relazione ‒ disporre di più ampie possibilità per far sì che i detti obiettivi (di difesa comune) vengano raggiunti senza portare pregiudizio al progresso sociale dei popoli, scopo questo che resta per il Governo italiano elemento fondamentale di politica».

Il cuore dell’accordo è l’articolo 9 che disciplina le “Forze europee di difesa”.

«Esse sono formate dai contingenti messi a disposizione dagli stati membri ai fini della loro fusione nelle condizioni previste dal Trattato». Lo stesso articolo stabilisce ‒ ed è questo un passaggio cruciale ‒ che «gli stati membri non potranno avere forze armate nazionali», salvo alcune tassative eccezioni (essenzialmente la Marina, poiché solo le formazioni per la difesa delle coste dovranno far parte delle Forze europee; i corpi destinati alla guardia personale del capo dello Stato e le forze armate destinate ad essere impiegate in territori non europei: essenzialmente, all’epoca, le colonie). Lo stesso Trattato prevede che il «volume totale di tali forze nazionali non dovrà essere tale da compromettere la partecipazione dello stato membro alle forze europee di difesa». Se carattere nazionale continuano a mantenere le forze di polizia e le altre forze preposte al mantenimento dell’ordine pubblico, il loro volume tuttavia, «deve essere mantenuto proporzionato ai limiti della loro missione» (articolo 10).

Le «Unità di base» delle forze europee corrispondono alla tradizionale divisione. Fino a questo livello non vi è una integrazione tra elementi di diversa nazionalità che avviene invece a livello di corpi di armata (articolo 68). Per ogni Unità di base il protocollo prevede effettivi pari a 13.000 uomini per le forze di terra e 1.300 uomini per le forze aeree. Certo gli accordi di allora presupponevano la leva obbligatoria, e tuttavia i numeri sono eloquenti e mostrano quanta distanza vi sia tra le ambizioni dell’epoca e le prospettive di oggi (la cosiddetta “bussola strategica” approvata dal Consiglio dell’UE il 21 marzo del 2022 prevede tra i suoi obiettivi principali quello di poter disporre entro il 2025 di una capacità di intervento rapido fino a 5 mila unità, da utilizzare per la gestione delle crisi esterne) [2].

Oltre all’integrazione delle scuole militari (articolo 74), a uniformi comuni (articolo 15), al trasferimento ad una Corte della Comunità dei poteri di repressione delle infrazioni penali commesse dai membri delle Forze europee (articolo 18), il Trattato contiene un complesso di disposizioni di carattere economico.

Si prevede un bilancio comune predisposto dal «Commissariato» (l’organo principale della Comunità, composto e organizzato in modo analogo all’alta Autorità della CECA e a quella che sarà la Commissione della CEE); bilancio che deve essere approvato dal Consiglio e poi dall’Assemblea (le altre istituzioni, insieme alla Corte, della Comunità).

Al Commissariato, il Trattato affida («in consultazione con i governi degli stati membri») anche la preparazione «di programmi comuni di armamento, equipaggiamento, approvvigionamento ed infrastruttura delle forze europee di difesa» (articolo 101). Ed è oggi «lo sviluppo congiunto di capacità militari all’avanguardia» l’elemento forse più promettente della “bussola strategica”.  Sempre secondo il Trattato CED «la produzione di materiale bellico, importazione ed esportazioni di esso, le misure interessanti impianti destinati alla produzione del materiale stesso, la fabbricazione di prototipi e la ricerca tecnica relativi al materiale in questione possono effettuarsi solo in base ad autorizzazione del Commissariato, altrimenti sono vietate» salvo specifiche autorizzazioni sempre del Commissariato (articolo 107). Nell’annesso a questo articolo si indica il materiale cui questa norma si riferisce; e nella puntuale descrizione non solo vi sono le armi tradizionali, ma anche l’arma atomica.

Nelle prime pagine della relazione illustrativa del disegno di legge di ratifica il governo sottolinea l’importanza dell’articolo 38, il cui inserimento fu proprio De Gasperi, con la collaborazione di Altiero Spinelli, a volere e ottenere. Esso affida all’Assemblea della CED (istituzione composta da delegazioni dei Parlamenti nazionali), il mandato di elaborare modifiche ai trattati per dare alla Comunità dei sei Stati una struttura «federale o confederale fondata sul principio della separazione dei poteri e dotata in particolare di una assemblea eletta su base democratica».

Per De Gasperi era chiara la correlazione tra esercito europeo e costituzione di un nucleo di potere politico comune.

È un vero momento di svolta nel negoziato che portò al Trattato, il suo discorso a Strasburgo all’Assemblea del Consiglio d’Europa del dicembre del 1951 [3]; nel chiarire la dimensione etica e morale del progetto De Gasperi affermò: «se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da  un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore ‒ noi rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale. Potrebbe anche apparire in un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva, quale appare in certi periodi del suo declino il Sacro Romano Impero (…). Se noi chiamiamo le forze armate dei diversi paesi a fondersi insieme in un organismo permanente e costituzionale e, se occorre, a difendere una Patria più vasta, bisogna che questa Patria sia visibile, solida e viva». Secondo De Gasperi l’esercito europeo serve «per creare uno stabile ponte fra nazioni, separate spesso nel passato, da un abisso nel quale precipitò tutta l’Europa (…). Per creare questo ponte è però evidente che il primo, principale pilastro deve essere rappresentato da un corpo eletto comune deliberante (…), il secondo da un bilancio comune che tragga in parte considerevoli le sue entrate da contributi individuali, cioè dal sistema di tassazione. La storia ci insegna che la forma di contribuzione degli Stati, come sistema esclusivo per sopportare spese comuni, può provocare pericolose divergenze e contenere germi di dissoluzione. Non è poi così difficile ‒ precisava De Gasperi ‒ per ciascun stato devolvere il prodotto di un monopolio o di una imposta di un’altra natura al profitto di un bilancio comune».

I grandi protagonisti della storia della CED: De Gasperi con Adenauer e Schuman.

Il disegno di legge di ratifica fu approvato in Commissione il 4 marzo del 1953; ma la legislatura stava finendo (le Camere furono sciolte all’inizio di aprile) nel clima arroventato dal confronto sulla riforma della legge elettorale. Le elezioni di giugno segnarono una sconfitta politica per De Gasperi e il suo tentativo di formare un governo non ottenne a luglio la fiducia della Camera. Il nuovo esecutivo guidato da Pella sembrò disponibile a sacrificare sull’altare della soluzione della questione di Trieste la ratifica italiana della CED. Solo ad aprile dell’anno successivo il presidente del Consiglio Scelba, su insistenza di De Gasperi, ripresentò alla Camera il disegno di legge di ratifica [4].

Ma nel frattempo, con la morte di Stalin e la fine del conflitto in Corea, allontanandosi la guerra fredda dalla sua fase più acuta, era diminuita la tensione che aveva portato alla firma del Trattato. A nulla valsero le ratifiche dei tre Paesi del Benelux e quella tedesca. Mancava solo quella italiana, quando il dibattito sul Trattato entrò nel vivo in Francia. Dibattito segnato dalla sconfitta in Indocina di Dien bien phu del maggio; chiuso dal voto contrario dell’Assemblea nazionale del 30 agosto 1954 che segnò anche il tramonto di un’intera classe politica francese (identificabile soprattutto con il centro democristiano che aveva visto in una vera condivisione di sovranità la chiave di un rinnovato ruolo internazionale della Francia). De Gasperi morì il 19 dello stesso mese. Nell’apprendere al telefono da Scelba dell’imminente esito del voto francese, come ricorda la figlia Maria Romana, «le lacrime scendevano senza vergogna sul suo volto ormai vecchio» [5].

Tre anni prima De Gasperi concludendo il suo discorso a Strasburgo, rivolgendosi alle generazioni più giovani aveva detto: «È vero che ognuno di noi ha nel suo paese problemi che lo incalzano da tutti i lati, è vero che alcuni potrebbero desiderare di perseguire quest’opera di coordinazione in altri settori più facili, ma ciascuno sente che questa è l’occasione che passa e non tornerà più. Bisogna afferrarla ed inserirla nella logica della storia».

«Il primo e principale pilastro» del disegno degasperiano è oggi realizzato ed è compiutamente vitale: il Parlamento europeo. Il «secondo pilastro» è insufficiente (il bilancio dell’UE è ancora fondato essenzialmente sulla «contribuzione degli Stati» e non su un «sistema di tassazione»), ma le sfide della pandemia hanno riaperto il dibattito, mentre quelle del conflitto in Ucraina ripropongono con nuova urgenza il tema della difesa comune, di un “esercito europeo”.

Forse, dopo settanta anni, l’occasione è tornata.

______________________________________________________

[1] I Legislatura, A.C. 3077 del 13 dicembre 1952.

[2] Cfr. in proposito la Nota su atti dell’Unione Europea n. 95.

[3] Discorso pronunciato all’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo il 10 dicembre 1951, ora in M.R. Catti De Gasperi, La nostra patria Europa, Milano, 1969, p. 53 e ss.

[4] Atto Camera 767.

[5] M.R. Catti De Gasperi, De Gasperi. Ritratto di uno statista, Milano, p. 322.