Quando, il 30 agosto 1954, il Trattato sulla Comunità Europea di Difesa (CED) fu respinto dall’Assemblea Nazionale francese e così abbandonato per sempre, a fallire non fu solo la pragmatica ambizione di disporre di un esercito comune – che si riteneva sarebbe risultato di valenza particolarmente strategica alla luce degli sviluppi legati alla Guerra Fredda e in considerazione delle preoccupazioni legate al riarmo tedesco –, ma un’illuminata visione del futuro e di un progetto politico di Europa che, probabilmente, sarebbe stato in grado di affrontare in maniera più incisiva le sfide che si sarebbero presentate nei decenni a seguire, comprese quelle di stretta attualità. Quello di De Gasperi, massimo promotore di questa visione, era infatti il sogno di un’Europa protagonista della scena globale e per raggiungere tale obiettivo, lo statista italiano riteneva che il punto di partenza imprescindibile fosse l’istituzione di un esercito comune, l’attività del quale sarebbe stata indirizzata da organi governativi e legislativi sovranazionali, ai quali gli Stati membri avrebbero affidato alcune delle loro competenze.

La proposta di Europa unita sostenuta da De Gasperi era pertanto di stampo “costituzionalista” e il Trattato istitutivo della CED rispecchiava esattamente quest’approccio [i] Come previsto all’art. 1 del Trattato, la CED avrebbe dovuto avere “carattere sovranazionale” ed essere “costituita da istituzioni comuni, forze armate comuni ed un budget comune”. In particolare, le istituzioni comuni elencate all’art. 8, comprendevano: un Commissariato, dotato di poteri esecutivi e supervisori, che venivano enunciati nel dettaglio dall’art. 19; un Consiglio dei Ministri, con la funzione di armonizzare le azioni del Commissariato con le politiche dei governi degli Stati membri, nelle modalità stabilite dall‘art. 39; una Corte di Giustizia, che l’art. 38 identificava nella medesima già costituita per la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), con il compito di assicurare lo stato di diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato istitutivo della CED e nell’implementazione dei regolamenti; un’Assemblea Comune anch’essa da identificare con quella della CECA, sempre secondo l’art. 38, come fortemente voluto proprio da De Gasperi.

L’Assemblea Comune avrebbe avuto la funzione più controversa, e fu in larga misura – se non interamente – la causa del fallimento del progetto della CED. L’Assemblea sarebbe stata composta non da delegati degli Stati membri, bensì da rappresentanti dei cittadini eletti su base democratica: per la prima volta, veniva ideato un organo di natura politica, “concepito in modo da poter costituire uno degli elementi di una struttura federale o confederale definitiva, basata sul principio della separazione dei poteri e comprendente, in particolare, un sistema di rappresentanza bicamerale” (art. 38). In altre parole, il progetto costituzionalista degasperiano prevedeva, come in ogni sistema liberale, un organo legislativo, eletto direttamente dai cittadini della Comunità. Si trattava, in principio, di una visione neutra del carattere di questa struttura sovranazionale. Successivamente, si è dibattuto su quale avrebbe dovuto essere l’obiettivo ultimo, con la realizzazione di uno Stato federale europeo o di una confederazione di Stati. [ii]

La mancata approvazione del Trattato istitutivo della CED da parte dell’Assemblea nazionale francese nell’agosto 1954, fece naufragare il progetto dell’esercito comune, aprendo la strada all’approccio “funzionalista” [iii] in luogo di quello “costituzionalista” degasperiano. Fu così che, ad istituzioni di natura politica, si preferì porre le basi dell’odierna Unione Europea (UE) con istituzioni di natura tecnico-amministrativa, rispondenti a determinate esigenze di cooperazione. L’idea fondativa, che trova origine nel pensiero dell’economista David Mitrany, [iv] era che lo sviluppo di tali istituzioni nel tempo avrebbe necessariamente richiesto una graduale cessione di sovranità da parte degli Stati membri e, di conseguenza, avrebbe comportato un’integrazione europea anche sul piano politico. La CECA prima e poi l’EURATOM e la CEE, rispecchiavano tutte tale visione, che aveva come focus principale l’ambito economico, dove era più agevole raggiungere il consenso di tutti gli Stati membri.

Il passaggio dall’integrazione economica a quella politica, passo conclusivo nel progetto funzionalista, sarebbe dovuto avvenire con il Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione Europea, TUE), l’atto di nascita dell’UE. Il Trattato prevedeva che la neonata Unione si sarebbe fondata su tre “pilastri”, il secondo dei quali era la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), che includeva anche la politica europea di sicurezza e difesa. Anche questo sistema, tuttavia, non godette di una lunga esistenza: con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, il sistema dei “pilastri”, che nello sviluppo pratico aveva incontrato notevoli difficoltà, venne definitivamente abolito. In sostituzione del secondo “pilastro”, in materia di PESC il Trattato di Lisbona modificò alcuni degli articoli del TUE e del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nel – debole – tentativo di creare un quadro giuridico coerente che potesse finalmente regolare le competenze dell’UE e dei suoi vari organi in tale settore.

Nella legislazione corrente, seppur di natura sui generis – non essendo menzionata agli artt. 3-6 del TFUE sotto nessuna delle categorie delle competenze (esclusive, concorrenti o di supporto, coordinamento o completamento) –, la competenza in tema di PESC è esplicitamente attribuita all’UE e “soggetta a norme e procedure specifiche”: essa copre, ex art. 24 TUE ed art. 2 TFUE, “tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune”. Tuttavia, la problematica maggiore che l’attuale normativa deve affrontare rimane la resistenza degli Stati membri a cedere la propria sovranità all’Unione in un ambito che si trova al fulcro delle funzioni statali. Gli Stati vogliono, in altre parole, che le decisioni più rilevanti di politica estera rimangano di loro competenza, poiché talvolta le conseguenze delle stesse sugli interessi coinvolti non sono positive allo stesso modo per tutti i membri dell’Unione. Nel concreto, l’opposizione degli Stati può avvenire perché all’art. 31 TUE è previsto che, salvo in determinati casi specifici, le decisioni in materia di PESC “sono adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all’unanimità”. È sufficiente, dunque, un solo voto contrario, per fare in modo che una decisione venga respinta. [v]

Questa costante tensione fa sì che, nella pratica, la PESC non abbia quindi uno scopo così ampio come quello previsto agli artt. 24 TUE e 2 TFUE. Alcuni studi [vi] hanno analizzato quale sia l’oggetto più frequente delle decisioni dell’UE in materia di PESC. Queste analisi consentono di comprendere in quale modo, nel concreto, l’UE sia stata in grado di esercitare le proprie competenze. Dalle ricerche è emerso che “tra il 2009 e il 2020, il Consiglio ha adottato 506 decisioni sulle sanzioni, 245 decisioni sulle missioni e le operazioni dell’UE, 123 decisioni di nomina di rappresentanti speciali e 86 decisioni sui regimi di controllo degli armamenti. Altre 94 decisioni hanno riguardato innovazioni istituzionali, come la creazione di agenzie o altri accordi”. Come notano gli autori dello studio, dal fatto che le sanzioni siano lo strumento più utilizzato dall’UE nel condurre la propria politica estera si può dedurre come la natura “punitiva” invece che “costruttiva” di tali misure sia indice di un’assenza di una vera e propria pianificazione politica, mirata ad ottenere risultati di lungo termine.

Come appare evidente, gli interessi spesso divergenti degli Stati membri non consentono all’Unione di esercitare appieno le proprie competenze. Per ovviare alle difficoltà appena esposte, sono state adottate soluzioni di diversa natura. [vii] La prima è la previsione, all’art. 31(1) TUE, della cosiddetta “astensione costruttiva”. Attraverso questo articolo, l’unanimità richiesta per l’adozione di una decisione può essere aggirata. L’articolo recita che, “[i]n caso di astensione dal voto, ciascun membro del Consiglio può motivare la propria astensione con una dichiarazione formale a norma del presente comma. In tal caso esso non è obbligato ad applicare la decisione, ma accetta che essa impegni l’Unione”. Ad ogni modo, lo Stato membro interessato rimane sotto l’obbligo di astenersi “da azioni che possano contrastare o impedire l’azione dell’Unione basata su tale decisione”. L’adozione della decisione, dunque, non viene ostacolata, a meno che non sia un terzo degli Stati membri ad astenersi. La seconda soluzione è rappresentata dalla possibilità che gruppi di Stati membri, pur non rappresentanti la totalità dell’Unione, collaborino per conseguire determinati obiettivi di politica estera, sicurezza e difesa. Due esempi in particolare – i più rilevanti – sono gli strumenti della “cooperazione rafforzata” (art. 20 TUE e Titolo III TFUE) e della “cooperazione strutturata permanente” (basata sull’art. 42.6 TUE e sul Protocollo 10 del TUE).

Tali soluzioni, tuttavia, aggirano, senza affrontarla, la questione principale: il conflitto fra Stati membri ed Unione sulla sovranità in materia di PESC. L’Unione Europea in questo modo si presenta agli occhi del mondo come un soggetto internazionale frammentato, con un peso politico relativamente debole. L’approccio funzionalista, che ottimisticamente prospettava tramite la graduale attribuzione di competenze un naturale passaggio all’integrazione europea a livello politico, non aveva tenuto conto della “gelosia” degli Stati nei confronti di alcune funzioni, come la politica estera e di difesa e sicurezza, che compongono la vera essenza della sovranità statale e della conseguente ritrosia nel cederle ad un’istituzione sovranazionale. Quel passo in più, che il progetto degasperiano proponeva invece come punto di partenza, sembra alle condizioni attuali estremamente difficile da compiere. Tuttavia, la situazione internazionale attuale, per alcuni aspetti simile a quella dei primi anni ’50, [viii] potrebbe rappresentare una nuova, propizia opportunità per il raggiungimento di tale obiettivo. «L’occasione che passa e non tornerà più», di cui parlò De Gasperi in suo celebre discorso, potrebbe, oggi, essere tornata. Bisognerebbe, forse, non lasciarsela sfuggire nuovamente.


[i] Odorizzi M., “Alcide De Gasperi e il sogno europeo” (2018), Dialoghi, No. 1/2018; https://rivistadialoghi.it/articolo/12018/alcide-de-gasperi-e-il-sogno-europeo/.

[ii] Preda D., “De Gasperi, Spinelli e l’art. 38 della CED”, Il Politico, Vol. 54, No. 4 (152) (Ottobre-Dicembre 1989), pp. 575-595.

[iii] De Luca S., “Funzionalismo” (2006); https://www.dizie.eu/dizionario/funzionalismo/.

[iv] Hayrapetyan A., “Federalism, Functionalism and the EU: The Visions of Mitrany, Monnet and Spinelli” (21 settembre 2020); https://www.e-ir.info/2020/09/21/federalism-functionalism-and-the-eu-the-visions-of-mitrany-monnet-and-spinelli/.

[v] Wessel R. A. e Larik J. (ed.), “EU External Relations Law – Text, Cases and Materials” (Hart Publishing, 2014, Seconda Edizione).

[vi] Bendiek A., Ålander M. e Bochtler P., “CFSP: The Capability-Expectation Gap Revisited: A Data-based Analysis”, SWP Comment 2020/C58 (Dicembre 2020); https://www.swp-berlin.org/en/publication/cfsp-the-capability-expectation-gap-revisited/.

[vii] Wessel R. A., Anttila E., Obenheimer H. e Ursu A., “The future of EU Foreign, Security and Defence Policy: Assessing legal options for improvement”,  European Law Journal 2020, No. 26, pp. 371-390.

[viii] Pecchi L., Piga G. e Truppo A., “Cultura della sicurezza e difesa comune nel futuro dell’Europa – Le conseguenze del conflitto” (6 aprile 2022), Il Sole 24 Ore; https://www.ilsole24ore.com/art/cultura-sicurezza-e-difesa-comune-futuro-dell-europa-AEiA22OB/.

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