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Radiomessaggio, 8 aprile 1950
È una vigilia pasquale piena di serenità e di speranza che viviamo oggi a Roma. Popoli di ogni razza e di ogni colore vi si incontrano come fratelli e le antiche «meraviglie di Roma» (mirabilia Romae) sembrano quasi rinnovarsi nel colore dell’ammirazione universale ed esprimere più solennemente il senso della nostra civiltà millenaria. In questo clima il nostro spirito si dilata, al di sopra delle quotidiane contese; e si vorrebbe dire e pensare soltanto di cose buone e di opere di pace. Perché ci tormentiamo sempre nella nostra travagliata vita pubblica con le immagini del male, perché la cronaca della delinquenza ha tanto spazio nei giornali, perché la stampa illustrata esibisce, esaltandola, la vita lussuosa e degenerata di poche centinaia di dissipatori, quasi a sfida della povertà e della sofferenza, perché non ci si conforta invece almeno oggi col pensiero che questo popolo italiano, pur nello sforzo della ricostruzione, prova ancora ad accrescere notevolmente la sua opera di solidarietà verso i deboli, gli ammalati, i colpiti dalla sventura?
È vero, la via verso la giustizia sociale cioè verso una più equa distribuzione della proprietà e del reddito è ancora lunga; leggi e costumi vi potranno provvedere solo per gradi; ma intanto, ove mancano e non è ancora raggiungibile la giustizia distributiva, supplisce in qualche misura l’assistenza collettiva e privata. Ricordiamo alcune cifre, per confortarci e fare meglio. Le spese sostenute dallo Stato per la beneficenza e per l’assistenza sociale nel 1938 ascendevano a 783 milioni, hanno raggiunto nel 1948 la cifra di 85 miliardi e 205 milioni, ossia pur tenendo conto della svalutazione le erogazioni dello Stato sono più che triplicate. Gli Istituti di ricovero (orfanotrofi, alberghi popolari, ecc.) al 31 maggio 1948 erano 6.607 con circa mezzo milione di ricoverati. E badate, mentre nel periodo dal 1920 al 1943 di nuovi istituti ne erano stati fondati solo 1.459, nei soli quattro anni dal 1944 al 31 maggio 1948 se ne fondarono altri 698. I refettori erano 17.811 con 2.021.893 assistiti: quasi il 90% dei Comuni risultavano forniti di refettori popolari. Di questi 17.811, dal 1944 al 1948 ne sono stati fondati ben 7.654. Quanti altri settori della nostra comunità nazionale (scuole, istituti economici, opere pie, associazioni religiose) costituiscono degli scompartimenti vitali in cui la linfa della comunità opera come in un tessuto cellulare e il bene si fa e il progresso si ottiene per concorso di forze, per una generosità fraterna, per una fede operosa.
Bisogna che questo concorso non venga meno, ma si accresca. Accanto all’impulso al lavoro e alla produzione, dobbiamo promuovere la libera iniziativa del bene, che serva ad integrare l’opera dello Stato. In regime di democrazia questo impulso di solidarietà, liberamente attuata, è più che mai indispensabile per controbilanciare le tendenze centrifughe della agonistica politica. Se nel nostro paese potranno svilupparsi i tessuti essenziali del lavoro e della solidarietà nazionale, le nostre lotte politiche non incideranno troppo negativamente sul nostro destino. Nostra grande avventura sarebbe se l’Italia tutta fosse permeata da un grande sentimento di unità spirituale. Poiché questo ideale, dopo tanta irruzione di ideologie straniere si è allontanato dalle mete raggiungibili dalla nostra generazione, è assolutamente necessario che la nostra democrazia si dia almeno e imponga alcune leggi di convivenza civile.
Le decisioni del suffragio universale, le deliberazioni della Costituente e del Parlamento fissano queste regole di convivenza, che rappresentano un patto al quale nessuno ha il diritto di ribellarsi, senza tradire la democrazia. La tesi contraria, riaffermata nelle ultime interpellanze alla Camera, è inaccettabile. La libertà della discussione e il contrasto delle opinioni trovano la loro legittimità morale solo nel presupposto che, a decisione avvenuta e a legge promulgata, la legge valga per tutti. Abbiamo discusso all’infinito sul Patto atlantico. Tutti hanno potuto sostenere la loro opinione, dentro e fuori del Parlamento. Oggi il Patto atlantico è legge che impegna in confronto di altre nazioni il governo e lo Stato italiano. Noi abbiamo concluso questo patto come patto di sicurezza e di difesa. Esso stabilisce che gli Stati contraenti «uniscano i loro sforzi per la difesa collettiva e il mantenimento della pace, al quale scopo tali Stati – dice il testo – manterranno e svilupperanno la loro capacità individuale e collettiva di resistere ad attacchi armati».
Resistere ad un attacco armato, questo è il patto, questo e nessun altro è l’impegno dell’Italia. Oggi, come ieri, abbiamo ferma la speranza che l’attacco non ci sarà e che il patto scoraggerà qualunque guerra. Ma nessun uomo responsabile che voglia salvaguardare l’indipendenza nazionale, può lasciare l’esercito senza armi adeguate, senza equipaggiamento. Rimanendo ancora ben al di sotto di quanto concede il Trattato, abbiamo accettato con riconoscenza il contributo delle armi americane. Queste armi, già a noi assegnate, sono armi italiane, sono armi della nostra legittima difesa, sono armi di sicurezza, strumenti che, considerati nella loro entità, sono inadeguati a qualsiasi offensiva contro qualsiasi ipotetico nemico e che, in base alla nostra volontà e al nostro impegno, non possono essere che strumenti di difesa e di pace. Perciò ne parlo e ne posso parlare anche oggi, mentre invio ai miei concittadini l’augurio pasquale. Sono certo che il popolo italiano nel suo buon senso, comprende che se un esercito deve essere, se devono esserci forze armate, sarebbe delitto inviare i figli del popolo, chiamati a difendere le frontiere contro un attacco del nemico, inviarli dico al massacro collettivo di fronte ad un nemico che ci attaccasse con le armi più moderne e più efficaci. Ma queste armi inviate dagli Stai Uniti servono anche a mettere in piedi e a unificare l’Europa.
L’Europa unita è il più grande baluardo della pace. I popoli d’Europa, vittime della guerra di ieri e destinati ad essere le prime vittime di una deprecabile guerra di domani, non vogliono né possono volere la guerra. Le correnti democratiche prevalenti in Europa si assoceranno tutte con la democrazia statunitense per costituire nel mondo un regime di libertà, di sicurezza, di pace. La salvezza sta in questa unità di libere forze; il pericolo viene dalla discordia e dalla disintegrazione dell’Europa. Si stampa, si ripete nei comizi e mani protette dalle ombre notturne scrivono sui muri che siamo dei servitori dello straniero, che vogliamo la tirannia, che prepariamo la guerra. Sono convinto che l’onesta coscienza dei lavoratori resiste alla suggestione di codesta perfida campagna di menzogne. Essa intuisce e sente che siamo galantuomini; che serviamo nient’altro che il popolo italiano il quale ci volle al governo; che quando imponiamo dei limiti legali alla libertà di taluni è per garantire la libertà di tutti; che quando chiediamo ordine e disciplina è perché il popolo concentri tutte le sue energie nello sforzo verso la giustizia sociale e l’elevazione delle classi lavoratrici. Voi intuite anche, o lavoratori, operai che mi ascoltate, che noi i quali abbiamo attraversato gli orrori di due guerre, non possiamo volere la guerra, ma anche assieme alla grande maggioranza dei lavoratori europei e americani aiutandoci gli uni e gli altri per ristabilire un minimo di difesa del nostro paese, lavoriamo per la pace. Pace interna e pace esterna noi vogliamo; questo e non altro è l’ideale che noi serviamo; ideale di un’Italia ordinata in un regime di libera democrazia, contraente leale di un patto di sicurezza internazionale, membro attivo ed efficiente di un’Europa unita nella difesa della pace.
Oggi dunque quanti di noi italiani serbiamo nel cuore questo ideale, abbiamo ben diritto di scambiarci l’augurio di pace della Pasqua cristiana.
(Archivi Storici dell’Unione Europea, ASUE – Fondo Alcide De Gasperi, Carte Bartolotta, 1950, V, pp. 19146-19151; “Il Popolo”, 9 aprile 1950)