La nostra Patria Europa

DOCUMENTI − DE GASPERI E LA CED

Discorso di De Gasperi: «Le basi morali della democrazia»

“Grandes Conférences Catholiques”,
Bruxelles, 20 novembre 1948

La scorsa primavera non potei accettare il cortese invito del Comitato per le Grandes Conférences Catholiques perché impegnato a fondo nella campagna elettorale. Ancora oggi la complessa difficoltà dei problemi economici e la asprezza della lotta politica in Italia mi avrebbero indotto a non interrompere il mio lavoro in patria, se questo rapido viaggio potesse dirsi veramente una interruzione. Ma, nel venire a rendere omaggio a questa eroica terra che è il Belgio, esempio di resistenza morale contro ogni forma di violenza, dove l’insufficienza delle armi materiali é largamente compensata dalle risorse di una civiltà superiore, io ho sentito che, lungi dall’interrompere il mio lavoro, lo continuavo. In Italia, infatti, noi facciamo uno sforzo per non rinchiuderci egoisticamente dentro le frontiere nazionali, per espanderci invece, con la nostra solidarietà vitale, sino alle frontiere della stessa civiltà.

Come leader del partito più numeroso della coalizione che governa oggi l’Italia, come vecchio combattente del movimento cristiano sociale e politico dei cattolici, ho un antico debito da pagare verso il Belgio, che fu il primo paese sul continente a fondare un regime veramente libero.

In verità voi, amici belgi, non avete bisogno dei miei riconoscimenti tardivi. Personaggi ben più autorevoli hanno testimoniato per voi nel corso della storia. Già Montalembert, a Malines, eccettuava il solo Belgio dall’accusa rivolta ai cattolici di non occuparsi della “vita pubblica, questo appannaggio delle nazioni adulte, questo regime di libertà e di responsabilità che insegna all’uomo l’arte di controllarsi e di avere fiducia in se stesso”. Voi avete partecipato alla rivoluzione nazionale, avete cooperato alla elaborazione dello Statuto della sovranità popolare e nello spirito di tale costituzione avete governato il vostro paese. Ogni partito di ispirazione cristiana in qualsiasi paese, (quando si pose sul terreno della libertà politica) ha potuto richiamarsi al vostro esempio.

E di tale vostro primato avete chiara coscienza fin da quando durante il Kultur-Kampf, Bismark lanciava un grido di allarme contro il governo “clericale” del Belgio, rappresentandolo come un pericolo per la pace europea e un ostacolo alla collaborazione con le nazioni vicine.

La risposta era superflua, ma il vostro Malou volle egualmente rimettere le cose a posto. L’Europa – diceva – si deve rendere conto della calunnia. Da quattro anni noi diamo la prova che l’opinione cattolica desidera soltanto l’applicazione savia e legale delle nostre libere istituzioni, essa le vuole e le difende tutte.

Non è che i belgi non avessero chiara la nozione di tutte le libertà, e non distinguessero in giusta gradazione il loro valore. Credevano, come noi crediamo, che le libertà essenziali sono quelle della persona, delle coscienze, della famiglia, del comune, della regione, delle associazioni e, aggiungeremmo noi, dei sindacati. Di fronte a tali profonde libertà la stessa libertà politica, cioè la partecipazione di tutti cittadini al governo, potrebbe rappresentare, in principio, qualche cosa di secondario. Ma il passato è là a dimostrare che, senza la libertà politica, tutte le altre sono minacciate. Si tratta soprattutto di un modo di difesa contro gli eccessi del potere pubblico e dello Stato centralizzatore.

“Signori, diffidate dello Stato”, insegnava a Carlo Wöste al congresso giubilare della gioventù.

In verità simili affermazioni antistatistiche ripetute da uomini politici belgi anche nel periodo in cui nuovi problemi sociali richiamavano l’intervento dello Stato, provocavano scandalo nei nostri animi giovanili, accesi di entusiasmo per le riforme sociali.

Più tardi però la storia e la vita ci hanno insegnato che il condannare in blocco tali sentimenti come attacco reazionario contro la giustizia sociale, risultava troppo semplicistico. Era l’esperienza delle loro rivoluzioni che spiegava in buona parte la diffidenza dei belgi verso i pubblici poteri. Essi nutrivano lo stesso pessimismo che aveva trovato terreno favorevole fra i pionieri della Repubblica Nord-americana. Questi pionieri, questi rifugiati, questi perseguitati politici dell’Europa nutrivano una profonda diffidenza verso lo Stato che diventa così facilmente tirannico. E per questo, con una saggezza politica notevole, essi decidono che è meglio limitare questo potere per sempre. Ciò spiega le molteplici istituzioni di controllo e la complicata macchina politica degli Stati Uniti. Si tratta d’impedire che d’ora in poi troppo potere sia posto in una sola mano o in un solo settore della vita nazionale.

Ma la storia anche dimostra che nessuna precauzione d’ordine costituzionale potrebbe impedire l’avvento della tirannia se una attiva coscienza democratica non è operante nel popolo.

Tragica fu l’esperienza del mio paese. Anche taluni tra noi stessi che l’avversarono, non avvertirono subito la profondità dell’attacco fascista. Non ci furono forse dei cattolici – non moltissimi per fortuna – che cedettero nel corporativismo totalitario e nella possibilità che la dittatura facesse progredire, con rapide e radicali riforme, la giustizia sociale? Si è creduto insomma che, in un grande Stato, la giustizia sociale potesse avanzare e consolidarsi senza la libertà politica e ci si è illusi che le libertà personali, familiari, sindacali e locali potessero salvarsi senza la libertà politica.

Dall’Italia il contagio si propagò in altri paesi e la dittatura di Lenin venne sfruttata per giustificare una contro-dittatura. In questo periodo di tenebre, noi che dovevamo vivere in patria come esuli, guardavamo spesso all’esempio luminoso del Belgio. Ricordo la campagna elettorale a Bruxelles nel 1937. Seguivamo con ansia gli sforzi di ricostruzione economica ed equilibrio politico del primo ministro M. Van Zeeland che difendeva dall’attacco di estrema destra il suo governo di concentrazione nazionale e che, di fronte al pericolo della guerra, affermava la sua energica ed attiva volontà di pace. Noi oggi ancora potremmo ripetere le parole che egli scriveva il 23 marzo: “mai accetterei di considerare la guerra come un male necessario ed ineluttabile.

Fino all’ultimo momento, un raddrizzamento è possibile e dobbiamo tendervi con tutti i nostri sforzi”, e registravamo con simpatia e con speranza le parole di Spaak, allora ministro degli Esteri, il quale in una intervista all’Indépendance belge, riconoscendo “i valori umani trasmessi dal cristianesimo come fondamentali per la nostra civiltà”, riaffermava la possibilità di una collaborazione fra le due correnti, l’una che rappresentava più particolarmente valori d’ordine, di autorità, di responsabilità nel quadro della democrazia, l’altra uno sforzo più potente in favore della giustizia sociale.

Erano i giorni in cui, in due Encicliche pubblicate contemporaneamente, il Pontificato romano prendeva posizione su due fronti, l’una rivolta “contro il comunismo e in favore della giustizia sociale”, l’altra “contro il nazismo e per la difesa dei diritti cattolici tedeschi”. Ma se questi documenti erano, come ovvio, di dottrina generale, più esplicita e perentoria, perché rivolta ad un sistema concreto e particolare, ci era giunta la lettera pastorale dei vescovi belgi.

“Noi disapproviamo formalmente – diceva la lettera – le tendenze all’una o all’altra forma di regime totalitario o dittatoriale. Non ci aspettiamo nulla di buono per la Chiesa cattolica nel nostro paese da uno Stato totalitario che sopprimesse i nostri diritti costituzionali anche se cominciasse col promettere la libertà religiosa. Noi vogliamo il mantenimento di un sano regime di libertà che assicuri ai cattolici – allo stesso titolo e nella stessa misura che a tutti i cittadini rispettosi della legge dell’ordine pubblico – l’uso delle loro libertà e dei loro diritti essenziali con la possibilità di difenderli e di riconquistarli se essi venissero un giorno ad essere minacciati o violati” (Lett. Past. del 26/2/1936).

Poi fu la guerra e l’iniquo travolgente attacco dello Stato totalitario. Passata la tempesta, possiamo ora chiederci se la lezione è stata compresa e soprattutto se le nuove costituzioni e le direttive postbelliche dei governi hanno tenuto conto sufficiente del mortale pericolo corso dalla democrazia.

Mi pare difficile affermarlo.

Nello sviluppo della nostra civiltà occidentale due sono le correnti di pensiero che, spesso alternandosi, influiscono sull’evoluzione politica.

La prima, resa più realistica e quindi più pessimistica dall’esperienza dei secoli, considera la debolezza naturale dell’uomo, per cui i legislatori e i filosofi antichi si domandano: “che cosa contano le leggi senza il costume”, e i costituenti nordamericani si preoccupano anzitutto che il potere politico non inceppi o non leda quelle libertà essenziali che corrispondono ad altrettante virtù morali nella vita sociale. Questa corrente dunque presuppone che le istituzioni politiche debbono agire in un ambiente morale e le considera come formatrici o almeno come protettrici di moralità.

In questa concezione il presupposto essenziale è la coscienza dei cittadini.

Ora chi non vede che il regime democratico, fondato sul popolo, dipende più che ogni altro, non solo dalla coscienza morale dei cittadini, ma anche dai costumi che regolano la loro comunità?

Al popolo sovrano non bastano le virtù dell’obbedienza e della disciplina; esso deve avere anche il senso della responsabilità di governo, il sentimento della solidarietà e della comunità, la forza morale di auto-limitare le proprie libertà in confronto dei diritti altrui e l’energia di non abusare delle istituzioni democratiche per interessi di parte o di classe. Nei momenti più decisivi quando l’elettore democratico è chiamato ad esercitare il diritto di voto, egli deve essere incorruttibile in confronto alle lusinghe dei demagoghi e dei ricatti dei potenti e quando agisce nella manifestazione collettiva deve vigilare perché la sua coscienza morale non venga sommersa dalla marea spesso istintiva e irrazionale della massa. E tuttavia il suo spirito dovrà essere aperto al più profondo sentimento comunitario, dovrà sentire vivissimo il senso della fraternità, e la democrazia dovrà costituire per lui non semplicemente un regime di istituti, ma una filosofia interiore che si alimenta non solo degli elementi razionali nell’interesse comune, ma anche soprattutto degli elementi ideali che pervadono le tradizioni spirituali e sentimentali e la storia della nazione.

L’altra corrente – che in certe epoche ha influito prevalentemente sulla evoluzione politica e che oggi stesso, nel dopoguerra, è ricomparsa nei dibattiti e in qualche formula delle Assemblee costituenti nonché nella maniera di preconizzare le riforme – è quella dell’ottimismo sociale rivoluzionario. Non v’ha dubbio che a tale ottimismo dobbiamo slanci di generosità e ventate di idealismo creativo che, nonostante l’errore filosofico del punto di partenza, hanno spinto vigorosamente innanzi la ruota del progresso umano.

L’ottimismo di Rousseau ha fatto sentire la sua influenza nella dittatura comunista, più di quanto non si creda. I grandi rivoluzionari comunisti non si sono peritati di trasformare lo Stato in una dittatura che servirà- come essi dicono – da ariete per abbattere le ingiustizie sociali. Rousseau diceva che l’uomo è cattivo soltanto per colpa della vita sociale. Per i marxisti ortodossi, la radice del male sta nella proprietà privata.

Con l’eliminazione di questa, l’uomo tornerà ad essere buono e la dittatura finirà da sé. Disgraziatamente la radice del male sta nel cuore dell’uomo e questi è non solo il trastullo della libido possidendi ma anche della libido dominandi, della volontà di dominare. Der Wille zur Macht sussiste anche nel regime collettivista.

L’ottimismo un po’ infantile, frutto delle correnti di pensiero del secolo XVIII, spiega la facilità con la quale i primi rivoluzionari marxisti hanno ideato quel terribile sistema di oppressione che è lo Stato comunista, accentrando non solo l’amministrazione, la burocrazia e la polizia, ma anche l’economia e l’insegnamento. Si deve aver creduto, molto ingenuamente, in una specie di stato di innocenza dell’umanità, per aver voluto affidare tanti poteri nelle mani di pochi.

Quando si tratta di organizzare la vita dello Stato, bisogna avere un sano pessimismo, derivante dalla coscienza che il male si può trovare in tutti gli uomini e in tutte le classi sociali.

Guai a quella concezione politica, secondo la quale tutto il male si trova da una parte e tutto il bene dall’altra. Si sarebbe, allora, ottimisti nei riguardi del proletariato e pessimisti nei riguardi della borghesia, oppure pessimisti nei riguardi delle masse e ottimisti nei riguardi dell’élites

Nell’un caso e nell’altro, si finirebbe coll’abbandonare tutto il potere a quello dei due gruppi al quale ci si immagina di riconoscere tutta la virtù.

Ma allora siamo noi pessimisti che guardiamo all’indietro e prevediamo, come fece cent’anni fa Donos Cortés, la catastrofe apocalittica della civiltà moderna? Affatto, una volta che il nostro realistico e filosofico pessimismo ci abbia condotto a creare quelle cautele costituzionali e ad esercitare quella pratica di governo che garantisca la libertà politica, come salvaguardia della democrazia, e le libertà essenziali quale presidio delle persone e delle coscienze, noi affrontiamo con risoluto e costruttivo ottimismo l’avvenire democratico delle nostre nazioni.

Se è vero, come scriveva il Bergson, che l’essenza della democrazia è la fraternità, converrà anche ammettere con lui che “la democrazia è di essenza evangelica”. E se il regime democratico, veramente e liberamente attuato, e tale da lasciar agire e fiorire il fermento evangelico del Cristianesimo, noi abbiamo diritto di sperare che tale energia dinamica fecondi e nobiliti la democrazia e sommuova e rinnovi tutta la civiltà; abbiamo il diritto di sperare e abbiamo anche il dovere di offrire alla democrazia il contributo della nostra filosofia, della nostra morale, della nostra tradizione.

Tale contributo è molteplice e vario secondo l’età e secondo le nazioni. Alcuni elementi, però, propri della vita personale dell’uomo, esercitano ovunque una pressione costante sulla vita sociale purché essa si muove in regime di libertà.

Il Cristianesimo ad esempio introduce nella vita spirituale dell’uomo lo sforzo verso la perfezione, cioè lo sforzo di liberazione interiore, proprio dei “figli di Dio”, i quali, ricorda S. Tommaso, agiscono come liberi e non come schiavi. Questo spirito di emancipazione si riflette anche nella vita sociale e trova modo di espandersi nel regime di libera democrazia.

Un altro elemento costitutivo è il concetto dell’uomo come “persona umana”. Durante la guerra e nel corso della polemica mondiale contro il nazionalsocialismo e i suoi derivati, credenti e non credenti ci siamo trovati tutti d’accordo nel difendere questo concetto, per cui l’uomo come dice Maritain è «più un “tutto” che una parte».

Sempre più l’uomo si rende conto che egli non è soltanto una parte dello Stato, come l’ape è parte dell’alveare o la formica del formicaio. Quando la concezione dell’uomo come persona si affievolisce, l’organizzazione dello Stato tende a diventare collettivista e assoluta. Il senso della dignità della persona umana porta invece all’uguaglianza di fronte alla legge e nell’organizzazione politica, cioè alla democrazia.

Il terzo e più forte impulso del Cristianesimo è l’amore. L’amore si chiama socialmente fraternità ed esige lo spirito di sacrificio nel servizio della comunità. E qui siamo all’elemento più vitale. La democrazia, dice sempre Bergson, è di essenza evangelica e ha come forza propulsiva l’amore.

La guerra portò a molti che lo avevano dimenticato la consapevolezza di questa forza propulsiva del Cristianesimo, che sospinge anche la civiltà moderna, per molti aspetti ostile; tanto che un filosofo idealista come il Croce s’attardò a dimostrare “perché non possiamo non dirci cristiani”. D’altra parte molti redenti che avevano diffidato dei princìpi democratici perché presentati da Locke e Rousseau hanno dovuto ammettere, di fronte al carattere pagano dello Stato totalitario, che, pur avviluppata nelle scorie di filosofiche aberrazioni, l’aspirazione democratica aveva origini evangeliche.

Le grandi forze cosmiche che abbiamo scoperto, questa civiltà economica e materialistica che abbiamo attuato, l’incredibile interdipendenza dei problemi politici, nazionali e internazionali, fanno correre un terribile pericolo alla nostra concezione del potere. Ci sentiamo in balia di forze più grandi di noi, parliamo di “forze economiche” o “necessità storiche” ed in mezzo a tutto ciò lo slancio umano si arena.

Davanti ad un avvenire così oscuro, come non soccombere alla tentazione di rifugiarsi nel passato? Come impedire agli uomini di pensare con nostalgia alle soluzioni arcaiche del buon tempo antico se non facendo appello a tutte le risorse del Cristianesimo, la cui età dell’oro non sta nel passato ma nell’avvenire? Non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né come individuo né come collettività, non abbiamo il diritto di disperare della storia, poiché Dio lavora non solo nelle coscienze individuali, ma anche nella vita dei popoli.

Solo il Cristianesimo, nobilitandoci per le conquiste future, può impedirci di essere presi da un’impazienza brutale di fronte alle lentezze dell’uomo.

Privo della pazienza misericordiosa del Cristianesimo, l’uomo non sa più dominarsi così che i rivoluzionari più idealistici furono spesso i più sanguinari. 

La pazienza! Ecco un rimprovero che si è mosso talvolta anche contro la nostra opera politica, come se la pazienza non fosse volontà tenace, ed energia compressa, tenuta in riserva, come se la pazienza non fosse la virtù più necessaria al metodo democratico, sia nella vita interna sia nei rapporti internazionali.

In questi due settori specialmente la democrazia è chiamata ad esercitare questa virtù.

Nel primo si tratta soprattutto della “giustizia sociale”. Dobbiamo risolvere il grande problema di una più equa circolazione e ripartizione dei beni, messi a nostra disposizione dal progresso. Queste riforme incalzano, sentiamo ch’esse si impongono, ma è ora divenuto più che mai evidente che non possiamo attuarle se non creando una sintesi vitale della storia di un secolo: la sintesi si può chiamare “libertà politica e giustizia sociale”.

Non possiamo uscire da tale binario, senza rovesciare il convoglio. Nel secolo XIX parve che questi due elementi si dissociassero talvolta fatalmente. Nei paesi di cultura germanica i provvedimenti di legislazione sociale e la vita stessa delle organizzazioni economiche e sindacali autonome parvero presentarsi come frutto di un regime di autorità; mentre nei paesi latini l’eccessivo individualismo e liberismo si presentarono come un ostacolo alla giustizia sociale.

I tempi sono oggi maturi per una sintesi vitale del metodo e regime democratico. La partecipazione delle forze operaie organizzate alla vita pubblica deve essere tale da introdurre negli organi politici l’impulso verso la giustizia economica e negli organi economici il presupposto irremovibile della libertà politica.

Chi accetta questa sintesi, accetta la democrazia e su questa base e con tale metodo è preparato e abilitato a partecipare allo sforzo comune del rinnovamento sociale; o almeno a prepararlo e a sgomberargli la via. Poiché lo Stato democratico, logorato dalla guerra, è ancora debole e il peso enorme del suo bilancio finanziario lo fa tardo nella ricostruzione dell’economia e gli ostacoli alla produzione diventano ostacoli all’opera di giustizia sociale.

Il mondo però oggi è in ansia, perché avverte che libertà e giustizia sociale si difendono e si raggiungono solo in un clima di sicurezza e di pace. Forse non è esatto parlare di sintesi del binomio “libertà politica e giustizia sociale”; è più vero parlare di un trinomio “libertà, giustizia e pace”, tutte e tre interdipendenti e solidali.

Per salvare la libertà bisogna salvare la pace, ma il regime di libertà non si salva se non si attua la ricostruzione economica che è la premessa della giustizia sociale. Il circolo è così chiuso e dimostra che tutta l’azione democratica deve puntare per le ragioni stesse della sua esistenza verso la pace.

Quando si parla di guerra, la fantasia corre alle operazioni militari e a forze armate in movimento, ed è ovvio che i capi degli eserciti elaborino piani di difesa, secondo certi schieramenti e certe linee strategiche; ma agli uomini di governo e ai politici responsabili non deve sfuggire che, nella guerra che potrebbe scoppiare, le operazioni militari rappresentano solo l’urto supremo, provocato nel punto che l’avversario considera decisivo.

Tale urto è anticipato da operazioni che non sono militari; ma possono essere operazioni di guerra nel senso che la guerra preparano e conducono ad essa. In tale senso l’azione per il sovvertimento e la disintegrazione delle democrazie neoparlamentari e la lotta per sabotare il piano di ricostruzione europea si possono dire operazioni di guerra. Contro queste operazioni di guerra noi democratici, ciascuno entro la propria nazione, difendendo il regime di libertà e la possibilità della ricostruzione, facciamo opera di pace, vogliamo salvare la pace.

Se è evidente che qualora il deprecato ricorso alle armi divenisse una realtà, esso avrebbe un carattere universale e certamente europeo, non arrestandosi dinanzi a nessuna frontiera, né terrestre, né marittima, né aerea, è pur chiaro che già oggi, pur senza guerra guerreggiata, la pressione e gli stessi pericoli minacciano i nostri paesi, senza distinzione di frontiera. Ecco che per resistere a tale pressione è necessario ricorrere alle energie ricostruttive ed unitarie di tutta Europa.

Contro la marcia delle forze istintive e irrazionali, contro la mistica del materialismo rivoluzionario integrale, non c’è che il supremo appello alla istanza della nostra civiltà comune; costituire questa solidarietà della ragione e del sentimento, della libertà e della giustizia, e infondere all’Europa unita quello spirito eroico di libertà e di sacrificio che ha portato sempre la decisione nelle grandi ore della storia. Questo il compito primario, il compito di tutti.

Lo spirito di solidarietà europea, potrà creare, in diversi settori, diversi strumenti di salvaguardia e di difesa, ma la prima difesa della pace sta nello sforzo unitario che, comprendendo anche la Germania, eliminerà il pericolo della guerra di rivincita e di rappresaglia. Contro la solidarietà della libera Europa verrà ad infrangersi la propaganda dell’odio ideologico e rinascerà nei popoli la certezza della pace e dell’avvenire democratico, fondato sulle forze dello spirito, della libertà, del lavoro.

Quanto a noi in Italia, Signori, fu appunto questa speranza di rinnovamento e di ricostruzione europea che ci infuse la forza d’animo necessaria ad eseguire un trattato di pace che, appena imposto, apparve anacronistico e sorpassato; smantellammo le fortezze, che avrebbero potuto ritardare un’invasione; consegnammo delle navi che nel periodo decisivo della guerra avevano servito su tutti mari la causa della libertà; e avremmo dovuto soccombere sotto il peso del fallimento economico, se la grande democrazia americana non avesse avuto fede nella nostra capacità ricostruttiva.

L’esempio di fierezza e di egoismo della vecchia gloriosa Inghilterra durante la guerra nazi-fascista aveva alimentato la nostra resistenza morale e ci aveva salvato dalla disperazione; ora l’intervento generoso e illuminato degli Stati Uniti ci sorregge nella durissima lotta per la libertà dal bisogno. Altri popoli, vicini e lontani, ci tesero la mano. Nella nostra avventura noi ridivenimmo più che mai consapevoli della comune civiltà e del nostro comune destino, e guardavamo al Belgio che camminava innanzi a noi sulla via della ricostruzione e dell’unione coi popoli vicini.

Questa che segue il vostro esempio, amici belgi, è un’Italia nuova, piegata sulle dure esperienze della sua storia, che si è risollevata, cosciente delle necessità dell’ora, e pronta ad imporsi, per parte sua, quelle auto-limitazioni di sovranità che la rendano sicura e degna collaboratrice di un’Europa unita in libertà e democrazia. Ci auguriamo che, come noi abbiamo imparato a negligere la cosiddetta abilità della tattica machiavellica per confidare invece nelle grandi linee strategiche d’una politica di civiltà, animata dai valori umani e cristiani, così gli altri popoli – abbandonati gli egoismi propri di tradizione ormai sorpassate – sentano i vincoli di una solidarietà rinnovatrice.

In quanto a noi, amici belgi che avete trepidato in primavera sulle nostre sorti e che ora, alle soglie dell’inverno, assistete al travaglio della nostra vita politica e sociale, non dubitate! A ogni stagione il suo male. 

Il difendere la democrazia col metodo della libertà è cosa dura, ma l’esperienza per essere meritoria, dev’essere costante e condotta a fondo. Noi non ci lasciamo andare alla deriva perché non rappresentiamo un partito e nemmeno soltanto una nazione, ma siamo una civiltà in marcia, e le ragioni della civiltà non tollerano né soste né abdicazioni.

Nessuno ha diritto di dubitare della nostra fermezza e dell’apporto che può dare un popolo di 45 milioni alla causa della pace e della civiltà, che è la causa di quanti cercano la libertà e hanno sete di giustizia.

(Archivi Storici dell’Unione Europea, ASUE – Fondo Alcide De Gasperi, Carte Bartolotta, 1948, XXI, pp. 15763-15799)