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Consiglio d’Europa,
Roma, 13 ottobre 1953
La tendenza all’unità è – mi sembra – una delle «costanti» della storia. Dapprima embrionali, appena abbozzati, gli aggregati umani entrano in contatto, quindi si agglutinano sino a formare un insieme più vasto e più omogeneo, poiché, non è un paradosso, più la società umana si dilata, più si sente una. Nel loro istinto oscuro, ancor prima che si faccia luce nei loro cuori, gli uomini portano già ciò che – secondo la parola di Cristo – Dio desidera da parte loro: Ut unum sint (Vangelo secondo Giovanni, XVII, 22). Queste cose sono state dette da secoli, dai religiosi. Anche gli storici, da qualche tempo, si avviano a queste concezioni, e la presenza, a questo tavolo, di un Toynbee, ne è un alto attestato. Noi stessi, gli uomini politici, e il fatto ha del prodigioso, abbiamo adottato questo linguaggio; e la prova che non si tratta di parole al vento è là in quest’uomo lungimirante e lucido, che si chiama Schuman.
Né l’odio né la crudeltà sono alla base della vita. Molti filosofi, soprattutto i materialisti, pongono nella morte la fonte della vita; e a sentir loro, la legge del più forte condiziona il progresso nel cammino della nostra specie. Guerre di conquista, di prestigio, o di rivalità nel passato, lotte di classe oggi: ecco come si manifestano normalmente queste tetre dottrine. Noi non vorremmo cadere in un equivoco, né trascinarvi altri; è per se stessa, non per opporla ad altri, che noi preconizziamo l’Europa unita. È una cosa che dobbiamo dire, in modo forte e chiaro: noi lavoriamo per l’unità, non per la divisione, foss’anche in pezzi più grossi. Significherebbe ingannarsi il sospettare nella nostra opera per l’Europa un tentativo per architettare qualche cosa che sia in grado di far fronte ai due blocchi oggi preponderanti. Sarebbe iniquo attribuirci delle tendenze esclusive quando parliamo di Unione Europea. D’altra parte soltanto dei sofisti potrebbero chiederci perché ci limitiamo a certi paesi. Non è onesto rimproverarci di escludere il resto dell’umanità. Forse che, quando si ama una donna e la si sposa, si firma perciò una dichiarazione di odio a tutte le donne? La famiglia che noi creiamo non esclude nulla: essa crea come cellula agente la città. A sua volta, la città crea la nazione, infine le nazioni creano… che cosa? La parola manca in assenza della cosa. Quanto alle nazioni europee, esse creano l’Europa. Per ubbidire alla tendenza unitaria, il XIX secolo ha lanciato il principio della nazionalità. Ai nostri giorni la nazione è discesa al rango che occupava ieri l’altro la città, ieri la provincia: è a più vaste società che oggi le nazioni guardano. Quanti clamori vennero dalla città ieri l’altro, dalle province ieri, mentre sorgevano le nazioni. Noi ci stupiamo se le nazioni fanno a loro volta un po’ di baccano. Ben pochi governi italiani volevano l’Italia unita; al di fuori di un pugno di «esaltati» – è così almeno che li chiamavano – nessuno ci teneva veramente.
L’Italia, malgrado tutto, si è unita e rimarrà unita. Accadrà fatalmente la stessa cosa per l’Europa. L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi, dar la misura del proprio genio. Alle olimpiadi, non nelle corse di provincia, venivano selezionati i migliori. Da quando si sente unita praticamente nel campo degli studi (questa unità è ormai cosa fatta) l’umanità studia meglio e più rapidamente, ciò che le permette di giungere a scoperte sino ad allora inimmaginabili; non appena essa si sentirà unita col cuore sbarazzata dalle impossibili barriere, l’umanità potrà anche realizzare più rapidamente il suo sogno di onesto benessere, la sua speranza, sempre chiusa, di pace laboriosa. Il fatto è che non si può giungere all’unione per mezzo di misteriosi «ukase», di decreti reali, repubblicani o ecclesiastici: l’unione è il frutto di un mutuo consenso e questo mutuo consenso è per sua natura libero e lento. Unirsi, è presto detto.
Come italiano e cristiano non esiterei a dire che, nella sua parte migliore, l’Europa è già unita, è tutt’uno. Esiste una storia europea come esiste una civiltà europea. Fra i fattori individuali che si trovano alla base della nostra unità, quali sono i più salienti e perciò suscettibili di un’azione concreta? A quali fonti comuni si sono dissetati la maggior parte degli europei? Io non sono né uno storico né un pensatore: è perciò dagli uomini illustri che onorano con la loro presenza questa conferenza che io attendo la risposta a queste domande.
Quanto a me, non vorrei fondare il mio sentimento di europeo sul solo fatto che mi sento cittadino di Roma e cristiano. Per quanto riguarda Roma senza alcun dubbio essa è stata grande; personalmente io vi vedo il vertice, forse il più elevato, di quanto ha offerto la storia civile e politica degli uomini; ma in Europa non vi è soltanto Roma. Come trascurare o mettere da parte l’elemento del Vicino Oriente, l’elemento greco, l’elemento delle coste africane del Mediterraneo, l’elemento germanico, l’elemento slavo? Inoltre, parlare di Roma è parlare di una cosa assai bella, ma anche assai antica. Nell’intervallo vi sono stati duemila anni di storia, di storia europea. Una volta, in Italia ogni città era capitale, con le sue leggi proprie e la sua ragione di Stato, le sue arti e la sua poesia, le sue chiese e i suoi palazzi. Ugualmente, in Europa i paesi erano innumerevoli. Quanto alla sua storia, essa è stata immensa nel tempo e senza frontiere, al punto che in alcune epoche tutti gli uomini hanno visto in essa «un giardino del mondo» se mi è permesso riprendere la frase di Dante sull’Italia, «giardino dell’Impero» (Purgatorio, IV). L’Europa che non è soltanto Roma, non neppure la sola era antica; essa è il Medio Evo, è l’epoca moderna, è l’ieri, è l’oggi. Tutti questi elementi si uniscono. Nessuno di essi potrebbe essere escluso o minimizzato.
Le voci di tutte le epoche si armonizzano nel concerto europeo. Essi si fondano in una tradizione le cui radici sono classiche, ma che si estendono in ramificazioni lussureggianti e folte, una tradizione che ci ispira unendoci. Ancora recentemente, taluni ci hanno accusato, noi i sostenitori dell’Europa, di stabilire nell’ombra una sorta di identità tra Europa e cristianesimo o per meglio dire, tra l’Europa e il cristianesimo cattolico. Prima ancora che infondata questa accusa è sciocca. Permetteteci tuttavia di ricordare che il cristianesimo, essendo ai nostri occhi una cosa divina, appartiene e si indirizza a tutti gli uomini. Farne una cosa soltanto europea sarebbe limitarlo, degradarlo. D’altra parte come concepire un’Europa senza tener conto del cristianesimo, ignorando il suo insegnamento fraterno, sociale, unitario, Nel corso della sua storia, l’Europa è ben stata cristiana; come l’India, la Cina, il Vicino Oriente sono quelli che sono stati sul piano religioso. Come escludere dall’Europa il cristianesimo? So bene che anche il libero pensiero è europeo. Ma chi di noi ha mai sognato di prescriverlo nell’Europa libera che vogliamo edificare? Soprattutto, il cristianesimo è attivo, perennemente attivo, nei suoi effetti morali e sociali. Esso si realizza nel diritto e nell’azione sociale. Il suo rispetto per il libero sviluppo della persona umana, il suo amore della tolleranza e della fraternità si traducono nella sua opera di giustizia distributiva sul piano sociale e di pace sul piano internazionale. Ma simili principi non possiamo realizzare senza la pace; è in quest’ultima che lo spirito di collaborazione troverà il suo pieno slancio.
In che consiste dunque l’unità dell’Europa? La cosa è ben chiara, miei cari amici: nei suoi elementi l’Europa è già unita; disgraziatamente nei suoi elementi materiali non lo è. In altri termini vi è un’altra Europa, ma è difficile definire la luce oppure l’amore. L’Europa esiste nella sua essenza, ma è visibilmente sminuzzata e tagliuzzata da divisioni territoriali, barriere economiche, rivalità nazionali. Le lingue – come ci ha dimostrato l’eminente signor Lofstedt – non costituiscono una difficoltà reale, come d’altra parte i costumi. L’Europa esiste, ma è incatenata, sono questi ferri che bisogna spezzare, le nostre strutture politiche accusano terribilmente la loro arteriosclerosi. Durante il dibattito, tutti questi illustri pensatori ci diranno i principi cui deve ispirarsi la nostra opera di costruttori. Mi sia permesso tuttavia di enunciare alcune osservazioni frammentarie a titolo personale:
1. È vero che soltanto alcune nazioni europee affrontano oggi col coraggio delle decisioni costruttive l’idea dell’unione, ma ciò si deve solo ad uno stato di cose a carattere contingente: la Gran Bretagna sente assai fortemente i suoi legami con l’Impero; la Russia divaga nell’ebbrezza del comunismo. Ma l’Inghilterra fa parte dell’Europa, e della migliore Europa, ma la Russia stessa fa parte della più grande Europa da cui ha tratto anche, disgraziatamente, la dottrina comunista.
2. Per unire l’Europa, vi è forse più da distruggere che da edificare; gettar via un mondo di pregiudizi, un mondo di pusillanimità, un mondo di rancori. Che cosa non occorse per fare una Italia unita là dove ogni città aveva imparato a detestare la città vicina durante i lunghi secoli della servitù? Bisognerà fare la stessa cosa per arrivare all’Europa. Parliamo, scriviamo, insistiamo, non lasciamo un istante di respiro; che l’Europa rimanga l’argomento del giorno.
3. Ma, soprattutto, i governi devono mostrarsi più risoluti quando si tratta di sbloccare i loro paesi. Bisogna ridurre le barriere che si oppongono al movimento di uomini e delle cose, orientare tutto verso una cooperazione piena ed intera, verso una equa distribuzione; tutto ciò, come ho detto, nella pace.
Non vi sorprendano le mie affermazioni categoriche in un momento in cui un problema di frontiera è così dolorosamente vivo in Italia; l’unione degli Stati si fonda sull’unità delle nazioni non sulla loro disgregazione. Si tratta di una questione che dipende ormai dai problemi dell’edificazione europea, e, per risolverla, noi facciamo appello ai metodi pacifici della cooperazione internazionale e al diritto dei popoli.
Per quanto riguarda le istituzioni bisogna ricercare l’unione soltanto nella misura in cui ciò è necessario, e, per meglio dire, in cui è indispensabile. Preservando l’autonomia di tutto ciò che è alla base della vita spirituale, culturale, politica di ogni nazione, si salvaguardano le fonti naturali della vita in comune. Quale deve essere la nostra parola d’ordine? A mio parere, l’unione nella varietà, la varietà delle forze naturali e storiche. Si potrà arrivare a questa direzione di marcia se si potrà marciare verso un nuovo umanesimo europeo; nel rispetto delle tradizioni, nello slancio verso il progresso, nell’esercizio della libertà.
(Archivi Storici dell’Unione Europea, ASUE – Fondo Alcide De Gasperi, Esteri, III, b. 26)