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Intervista a « Ouest France », 2 novembre 1953
[…] Gli chiedo come veda, realisticamente, l’Europa futura, se creda che gli Stati Uniti d’Europa diventeranno realtà in tempi più o meno prossimi […]. Se si vuole essere realisti bisogna guardarsi dal ricorrere a termini di confronto inesatti. Non si potrebbe parlare di Stati Uniti d’Europa se non in un senso molto relativo, poiché gli Stati Uniti d’America del nord o del sud si sono costituiti grazie alla federazione di territori i cui abitanti erano generalmente della stessa nazionalità. Ora, non si può immaginare che, anche nella sua fase più avanzata, la federazione europea possa costituire degli Stati Uniti d’Europa. L’elemento storico fondamentale degli Stati europei rimane la nazione. Nessuno potrebbe pensare a fondere, in un insieme politicoculturale, i caratteri nazionali della Francia o della Germania. È inevitabile che la comunità europea si basi su caratteri resi conciliabili dalla unità delle concezioni dominanti. […] La concezione unitaria predominante è la pace, vale a dire la garanzia di relazioni pacifiche tra i territori della Comunità e la garanzia di una difesa comune nei confronti degli altri territori europei. La pace interna basterebbe, essa sola, a giustificare la comunità tra i diversi stati, soprattutto fra la Francia e la Germania. Si tratta di raggiungere una posizione arbitrale organicamente consolidata, come quella che in alcuni momenti della loro storia hanno occupato sia il Sacro Romano Impero sia la Francia.
La novità consiste nel fatto che questa posizione arbitrale non sarebbe ottenuta attraverso il prestigio e la forza imperiale, ma grazie al prestigio morale e alla forza politica derivante da un’assemblea di rappresentanti dei popoli. Molti pensano ancora che ciò è un’utopia. Non credo che sia un’utopia, se si affronta il problema con prudenza e gradualmente. La prudenza concerne soprattutto gli stati minori e in generale quando è in gioco il sentimento nazionale. Nulla di ciò che è propriamente nazionale, e con ciò intendo la tradizione storica, le caratteristiche della cultura, le qualità naturali dovrebbe essere toccato dall’organismo comune che avrà il dovere di rispettare e di fondare il loro prestigio sulla loro coordinazione. Nulla dovrebbe essere dichiarato comune al di fuori di ciò che è indispensabile alle comuni finalità: comunità di difesa, comune amministrazione militare e progressiva tendenza ai mercati comuni. Ciò non sarebbe possibile senza rinunciare almeno a una parte di sovranità nazionale. Procedendo come le sto dicendo è solamente una parte ma una parte indispensabile, di sovranità che sarebbe ceduta all’organismo comune. Le nazioni restano vive, si sviluppano, e la comunità agisce come arbitro in un ambito importante ma limitato. Le difficoltà saranno grandi. Non lo nego. Ma è grande anche il progresso che l’idea ha fatto in questi ultimi tempi, sviluppandosi sul piano della comunità europea del carbone e dell’acciaio, prevedendo la comunità di difesa con la CED.
Siamo rimasti distanti da qualsiasi formula generale o utopica. Più difficile può essere il problema del mercato comune, ma anche là il metodo graduale può salvarci dal naufragio. Restano sempre, è vero, le obiezioni radicate nella nostra storia, nella legittima filosofia di ogni Stato, nell’inerzia del nostro spirito che si ribella davanti al «salto nel buio». Ma che alternativa resta? L’Europa e i conflitti passati, mentre i popoli si riarmano di diffidenza e di cannoni l’uno contro l’altro e mentre, ancora, si risvegliano i nazionalismi contrapposti? Oppure si deve cercare di soddisfare la tendenza unificatrice con l’internazionalismo comunista che distrugge le classi e sommerge le nazioni? In ogni modo, è fatale che si intensifichino le tendenze verso una comunità politica Con che mezzi si potrà uscire dal punto morto attuale? Lo sviluppo della tecnica e delle comunicazioni tende a rompere il circolo troppo stretto degli stati e, da parte sua, il problema della giustizia sociale cerca la sua soluzione in una distribuzione dei beni così come in un aumento della produzione che non è possibile che con l’allargamento del mercato.
D’altra parte la vita internazionale si è rapidamente complicata in seno a numerosi organismi di solidarietà e di scambio: ma si può dire che tale ordine internazionale si è dimostrato efficace in ambito politico e economico? In realtà, dal punto di vista politico noi procediamo con una specie di direttorio mondiale che improvvisa le sue decisioni senza poi poterle eseguire. La cosa è più manifesta ancora quando si tratta di problemi economici: veda per esempio l’OECE dove le decisioni sono sagge ma le conclusioni pratiche sono contraddittorie. Grazie a questa esperienza, appare chiaro cosa manca: manca un’autorità sovranazionale capace di imporre l’esecuzione comune. Non è questo il caso del piano Schuman? Il piano Schuman rappresenta l’unico esempio di una tale autorità. È in questa direzione che bisogna proseguire.
So bene che bisogna procedere con prudenza, anche nel ricorrere a formule democratiche. Non mi nascondo il pericolo: il Parlamento europeo, davanti al quale un’autorità comune sarà responsabile della difesa comune, della pace all’interno e dell’impegno a favore di una migliore giustizia sociale, costituirà uno strumento più maneggevole per gli uomini di buona volontà – a qualsiasi nazione essi appartengano – di quanto in passato non sia stata qualsiasi formula di impero o di equilibrio. Ultima domanda, signor presidente. Che accadrà se non si giungerà a tale comunità pacifica? Non voglio essere un profeta di sventure, ma una fatalità storica minaccia il nostro destino. I popoli abbandonati a se stessi non potranno, a lungo andare, fare a meno di guardare oltre frontiera cercando una solidarietà più vasta: essi saranno allora facile preda di una ideologia che, fondata sul trionfo di una classe, rinnega le patrie.
(Ouest France, 3 novembre 1953, in Archivio Storico Ministero Affari Esteri, ASMAE – Ambasciata Parigi, b 16. Una parte dell’intervista, in lingua italiana, è conservata in Archivi Storici dell’Unione Europea, ASUE – Fondo Alcide De Gasperi, Affari Esteri, X, a, 8).