La nostra Patria Europa

DOCUMENTI − DE GASPERI E LA CED

Intervista di De Gasperi a “U.S. News & World Report”

Robert Kleiman, 15 maggio 1953

Premier De Gasperi, lei è stato primo ministro per sette anni e mezzo, più a lungo di ogni altro capo del governo in Europa liberamente eletto. Qual è il segreto del suo successo?

 È difficile dare una risposta. Non credo si possa parlare di «successo». È il risultato di una sequenza di eventi. Sin dal principio, il mio sforzo è stato quello di unire le forze nel paese. All’inizio, ho anche lavorato con i comunisti. Gli americani ne erano sorpresi. Quando visitai l’America nel 1947 ogni giornalista mi chiedeva: «perché lavora coi comunisti?» Io spiegavo che il comunismo sovietico era alleato degli Stati Uniti durante la guerra. Di conseguenza, i comunisti divennero membri del governo in Italia, in Francia – ovunque il partito comunista fosse forte. 

Com’era lavorare al governo con i comunisti? 

Nel primo periodo, i comunisti italiani non davano l’impressione di essere il braccio amministrativo di bolscevichi stranieri. Togliatti, il leader comunista italiano, mi disse che incontrava l’ambasciatore russo solo una volta l’anno e che non aveva contatti con Mosca. Forse non ci credevo interamente ma senz’altro, fino al 1947, i comunisti italiani si comportavano in maniera differente rispetto a quanto avrebbero fatto in seguito, dopo l’organizzazione del Cominform. La nascita del Cominform, nel 1947, significò praticamente il ristabilimento del vecchio Comintern, l’internazionale comunista, ancora più controllato e ispirato di prima dal governo bolscevico. Togliatti, che era un membro del mio gabinetto, era stato segretario generale del Comintern. Capii immediatamente che da allora in poi non avrei avuto a che fare soltanto con un comunista italiano, ma con uno dei leader del comunismo internazionale. Questa considerazione ampliò la spaccatura che per altre ragioni interne si era già verificata fra noi e i comunisti.

Fu lei a cacciare i comunisti dal suo gabinetto o furono loro a ritirarsi da sé?

I comunisti mi accusarono di aver cambiato il mio atteggiamento verso di loro dopo il viaggio in America. Non era vero. Ad essere responsabile era stata l’evoluzione del comunismo. Contemporaneamente, le relazioni fra i vecchi alleati, Russia e paesi occidentali, erano deteriorate. La spaccatura avvenne dopo un articolo pubblicato da Togliatti che chiamò gli americani «stupidi». C’era una crisi di governo in quel periodo e dissi a Togliatti: «Credi che possa continuare a lavorare con voi? La nostra economia è a terra e abbiamo chiesto agli americani di aiutarci per ricostruire il nostro paese danneggiato dalla guerra, e tu ti metti a dare degli stupidi agli americani». C’erano altre divergenze. Sulla questione di Trieste, per esempio, avevo notato che Togliatti seguiva la linea sovietica, allora vicina a Tito, e che era troppo influenzato dal punto di vista russo che sosteneva le richieste della Jugoslavia. Da queste e altre posizioni nelle relazioni internazionali conclusi che era impossibile condurre la politica estera in cooperazione con i comunisti. 

La spaccatura avvenne sulla politica estera allora, più che sulla politica interna?

Certamente. Ma non solo. Avevamo anche differenze in politica interna. Ma queste differenze potevano forse essere superate finché fossimo andati d’accordo in politica internazionale. Coi comunisti fuori dal governo la mia politica ha continuato a essere di unità – unità di tutte le forze non comuniste per la ricostruzione dell’Italia. Credo che questa politica spieghi il lungo periodo di stabilità di governo avuto in Italia. Avrei potuto formare un governo del mio solo partito, i cristiano-democratici. Dopo le elezioni del 1948 avevamo quasi il 53 per cento dei seggi in parlamento. Ma credevo che tale governo non sarebbe stato forte e non avrebbe resistito quanto una coalizione di tutti i partiti democratici. Ma ora ci sono solo due partiti nel suo governo, i cristiano-democratici e il piccolo Partito repubblicano. Questo è vero. All’inizio c’erano sei partiti nel gabinetto. Quando uscirono i comunisti li imitarono i loro ausiliari, i socialisti di sinistra di Nenni. Ne restarono quattro. Poi i liberali e i socialisti di destra si ritirarono. Sono ancora fuori dal governo. Ma ora per la campagna elettorale le nostre liste sono di nuovo collegate. 

Le elezioni politiche italiane, le prime dopo cinque anni, si terranno il 7 giugno. Crede che i quattro partiti di centro resteranno uniti e vinceranno le elezioni? 

Questo è l’obiettivo della nuova riforma elettorale che abbiamo appena approvato. Rende possibile una coalizione dei quattro partiti democratici. La nuova riforma elettorale permette ai quattro partiti di correre separatamente. Ma essi possono «collegare» i loro voti. E se il voto congiunto supera il 50 per cento del totale, prenderanno e divideranno fra loro il 65 per cento dei seggi nella nuova Camera dei deputati. Altrimenti ogni partito riceve solo una quota proporzionale dei seggi. Il nostro obiettivo è permettere alla maggioranza di avere in Parlamento seggi a sufficienza per gestire e mantenere un governo stabile. La riforma elettorale non va a vantaggio del mio partito. Credo anzi che il mio partito avrà meno seggi di prima. Ma sarà a vantaggio della democrazia in generale. Il mio obiettivo con la riforma elettorale è stato di unire le forze democratiche. Questo è l’unico modo per sconfiggere il comunismo. Lo stesso vale per l’Europa. Anche lì dobbiamo unire le forze democratiche. Il comunismo ha la forza dell’unità. Le forze democratiche sono difficili da unificare. Hanno tendenze politiche differenti. Ma devono unirsi. Questa è la mia idea fissa in politica interna e estera. […] Ci sono ora due tendenze in Europa. Da un lato c’è la possibilità di ricostruire l’Europa come un’unità, di creare una accettabile cooperazione fra stati liberi. Dall’altro, c’è la tendenza di lavorare contro l’unità, di muoversi verso la disgregazione. Unità significa pace. Disunione significherebbe penetrazione comunista, aggressione e guerra. Mi arrabbio quando vedo nei giornali che i nostri obiettivi sono messi in discussione e vedo gli sforzi fatti per seminare il sospetto riguardo agli obiettivi dell’America in Europa. L’America ci sta aiutando a ottenere l’unità aumentando le nostre possibilità di difesa contro il comunismo, difesa morale e politica oltre che militare. Se la Gran Bretagna e la Francia sono divise, se la Francia e la Germania sono divise, questo lavora contro la pace e la possibilità di evitare la guerra. È impossibile per Americani o Europei avere un grande esercito e difendere l’Europa, se gli stessi stati europei non sono convinti della necessità dell’alleanza. Ciò che lavora contro la pace è la divisione in Europa. L’Italia, con una ampia minoranza comunista, o la Francia, con una classe media che non si sente abbastanza sicura, non possono stare da sole. Quindi credo che Eisenhower, nei suoi due anni in Europa, abbia capito il vero perno della situazione: l’unità. Ciò che serve è non solo l’organizzazione di eserciti e dei Supreme Headquarters, SHAPE, a Parigi. La questione principale è convincere Germania e Francia che il loro destino è un destino comune. Se si convincono e si accordano, il nostro problema principale sarà risolto.

 Secondo lei, allora, il problema principale in Europa è quello fra Francia e Germania? 

Sì. Sto ora discutendo con Nenni, il cui partito socialista di sinistra collabora con i comunisti. A fini elettorali Nenni sta cercando di distinguersi dai comunisti, una manovra tattica. Lo fa assumendo una linea «neutrale» nei confronti della Russia. Dice: «non chiedo a nessun italiano di allearsi con la Russia, ma di rimanere neutrale fra Russia e America». Nenni ripete ciò che ha scritto dopo il suo colloquio con Stalin diversi mesi fa. Dice che la Russia non ha motivo di attaccare l’Occidente perché la Russia è soddisfatta delle decisioni di Yalta e Potsdam. Ma la mia risposta è che Yalta e Potsdam non hanno deciso niente in via definitiva. A Yalta si decise che il confine fra Polonia e Germania doveva essere la linea Curzon. Questo nel febbraio 1945. Nell’agosto 1945, a Potsdam, si decise che la frontiera tedesco-polacca si sarebbe delimitata dopo, in un trattato di pace con la Germania. Nel frattempo, l’amministrazione provvisoria del territorio Oder-Neisse è stata affidata alla Polonia. Quindi, una situazione definita, fissata giuridicamente, non esiste. Adenauer ha ragione quando dice che ancora non c’è trattato di pace e che la questione è ancora aperta. Nel 1950, il governo comunista della Germania Est ha riconosciuto come definitivo il confine lungo l’Oder-Neisse. Ma Bonn ha rifiutato di riconoscerlo. Nenni dice che questo è motivo di guerra. Ma Adenauer risponde che la situazione è così complessa e gli effetti di una guerra così disastrosi che nessuno statista tedesco rischierebbe una guerra per i terreni dell’Oder-Neisse. […] Sei milioni di tedeschi sono stati cacciati dai territori dell’Oder-Neisse. Sei milioni di polacchi vi si sono trasferiti. Il territorio ora è abitato da slavi, non da tedeschi. La questione ora è tanto complicata che solo con grande sforzo, uno sforzo pacifico di negoziato, è possibile trovare una soluzione. Non credo quindi che si tratti di un genere di situazione che conduce alla guerra. La mia conclusione è che la soluzione non sta nella guerra, ma nella cooperazione fra Francia e Germania. L’unità in Europa può imporre una soluzione di questo problema. Se l’Europa è unita, la nostra unità spingerà i russi a giungere a negoziati pacifici su tutti i problemi dell’Europa. Questa è la mia speranza e ho il diritto di sperare. Forse è ottimismo. Ma questa è la mia politica.

 Ritiene che l’occidente debba continuare a riarmare, nonostante i recenti eventi in Russia? 

Lei deve capire che sono per il Patto atlantico, sono per la difesa, sono per l’unità con l’America – questa è la prima cosa. Se guardo al futuro, cosa vedo? Guerra? Conflitto? Assolutamente no. La mia politica è evitare la guerra: possiamo farlo solo se siamo forti, se siamo uniti in Europa e abbiamo forza morale oltre che militare. Ma non si può riassumere il problema semplicemente in termini militari, in numero di divisioni. Se arriveremo al punto di avere 80 divisioni in Europa, certamente sarà bene. Ma questo non è tutto. Se abbiamo 80 divisioni e proseguiranno i dissidi fra Germania e Francia, non abbiamo nulla. Se abbiamo 50 divisioni ma anche l’alleanza fra Francia e Germania, allora avremo la forza necessaria. 

Intende dire che un’alleanza franco-tedesca varrebbe 30 divisioni? 

Mi riferisco alla cooperazione, alla federazione, come progettata nei nostri piani di Unione europea. Lei conosce certo i nostri piani per un esercito di difesa europea. È più di un’alleanza. È fusione di eserciti. Assieme al pool carbosiderurgico del Piano Schuman, apre la strada alla unione politica dell’Europa. 

Vede oggi migliori prospettive per la pace rispetto a un anno fa?

In Corea, sì. Ma in Europa non vedo differenze. 

Si attende miglioramenti a seguito dell’offensiva di pace di Malenkov ? 

Si può solo sperare. Sembra che cinesi e russi abbiano deciso che è nel loro interesse giungere alla pace in Corea. Ma questa non è la questione principale nel mondo. 

Vede qualche speranza di riconciliare i due mondi? Non abbandono interamente la possibilità della coesistenza. La Russia può rimanere comunista e noi democratici. Ma solo a condizione che la Russia si astenga dall’intervenire negli affari di altri paesi. 

Avete avuto alcuna testimonianza dell’abbandono da parte di Malenkov della tattica annunciata da Stalin all’ultimo Congresso del Partito comunista sovietico?

Io no. Possiamo sempre sperare che ci sarà un cambiamento. Ma non c’è alcun segnale concreto. Stalin ha posto l’accento sulla divisione dell’occidente, sul mettere un paese contro l’altro e sfruttare queste divisioni per arrivare a un mondo comunista. Non c’è alcun segnale che gli obiettivi di Malenkov siano differenti. 

È preoccupato che l’occidente potrebbe smorzare i propri sforzi difensivi in seguito all’offensiva di pace di Malenkov?

Non vedo da nessuna parte segnali che gli uomini di stato responsabili in occidente siano tratti in inganno. Ho già sottolineato l’importanza dell’unità in tutta questa questione. Per noi è irrilevante che la politica sovietica diminuisca o aumenti la tensione in un momento particolare; l’una e l’altra tattica servono gli obiettivi di Mosca. E il punto è l’obiettivo, non la tattica. In altre parole, la tattica, morbida o dura, è immateriale. Ciò che conta è questo: il risultato di questa tattica è l’unità delle forze democratiche in Europa o il contrario? Ogni tattica che disintegri queste forze è dannosa per la pace e la sicurezza. 

Può spiegare perché l’Italia progetta di ridurre i propri stanziamenti per la difesa nel prossimo anno fiscale?

Il governo italiano ha integrato i propri stanziamenti per la difesa con una serie di leggi, in virtù degli impegni presi con il Trattato nordatlantico. Questi stanziamenti sono stati distribuiti in diversi anni fiscali in base ai programmi militari e alla loro esecuzione. Può succedere che il ritmo di spesa cali in un anno. Ma gli investimenti militari crescono proporzionalmente secondo i piani NATO. […]

Lo SHAPE vorrebbe vedere l’Italia collegata agli accordi militari balcanici che vengono stretti fra Jugoslavia, Grecia e Turchia. Non sarebbe nell’interesse dell’Italia farlo?

Trovo qualche resistenza nel mio vicino Tito. Non possiamo aderire a un patto balcanico prima di trovare una soluzione della questione di Trieste. La nostra opinione pubblica non lo accetterebbe.

Dopo le elezioni di giugno la soluzione sarà più semplice?

La sostanza della disputa sarà la stessa. La soluzione non dipende dalle elezioni, ma da Tito.

Non è possibile un compromesso?

Certo un compromesso è possibile, e lei ne ha suggerito uno: una linea etnica che collochi i territori a prevalenza slava in Jugoslavia e quelli prevalentemente italiani in Italia.

Premier De Gasperi, lei parlava di unità europea. Perché l’Italia non ha ratificato il trattato sull’esercito europeo? Da quanto ho capito, sperava che sarebbe stato ratificato per aprile. Invece prima dell’autunno il Parlamento non lo potrà nemmeno prendere in considerazione.

Ho dovuto ritardare il passaggio di molte leggi importanti a causa dell’ostruzione comunista. Ho dovuto dare la priorità alla legge di riforma elettorale. Stando così le cose, i mesi consumati per ottenere l’approvazione della legge elettorale con mezzi legali e costituzionali ha ritardato le elezioni all’ultimo weekend possibile prima del raccolto.

Detto per inciso, è la prima volta nella storia del Parlamento italiano che abbiamo ottenuto un vittoria sugli ostruzionisti. Come avete fatto?

La battaglia finale è stata al Senato. Il nostro Senato, come sa, ha gli stessi poteri della Camera dei deputati. È più come il Senato americano, per questo aspetto, piuttosto che come le deboli camere alte in altri paesi europei. Come la Camera, può far cadere un governo con un voto di sfiducia. La maggioranza democratica è minore al Senato rispetto che alla Camera, perché quasi un terzo dei senatori sono «senatori di diritto», nominati invece che eletti. Per molteplici ragioni, il blocco comunista ha una quota sproporzionatamente alta di questi seggi. Ma abbiamo tenuto il Senato in sessione giorno e notte. La notte scorsa ho dormito nella camera del Senato. La mattina successiva abbiamo predisposto il nostro piano; poche ore più tardi abbiamo votato e la maggioranza ha vinto.

È stato l’ostruzionismo comunista, immagino, a farvi sciogliere il Senato e a indire elezioni anticipate di un anno?

Sì.

Ma questo non ostacola i propositi della vostra nuova riforma elettorale per la Camera dei deputati?

Il Senato sarà eletto con la legge del 1948, con rappresentanza proporzionale e nessun bonus di seggi per il blocco di maggioranza?

La nuova legge è pensata per la Camera. Il Senato è eletto in parte con sistema proporzionale, in parte con sistema maggioritario uninominale. Sfortunatamente, questo sistema rende estremamente difficile ogni alleanza fra partiti.

Quindi i partiti collegati alla Camera saranno in competizione fra loro al Senato. Questo significherà dispersione di voti. Nelle elezioni del 1948 il suo partito, la Democrazia Cristiana, ha ricevuto 12.700.000 voti, 48,5 per cento del totale. Questo vi ha dato quasi il 53 per cento dei seggi alla Camera. Ma nelle elezioni locali e regionali nel 1951 e 1952, il voto alla Democrazia Cristiana ha totalizzato meno di 9.000.000, circa il 36 per cento. A cosa attribuisce questo calo?

La nostra analisi del voto del 1951-52 non mostra un declino tanto marcato come nei suoi dati. In ogni caso il voto del 1951-52 riguardava le elezioni locali e amministrative e la partecipazione è stata inferiore del 5-10 per cento rispetto al 1948. È più semplice per i partiti democratici mobilitare i propri sostenitori nelle elezioni politiche a livello nazionale e crediamo che le elezioni di giugno lo dimostreranno. La legge elettorale, comunque, penalizzerà i partiti maggiori, noi e i comunisti. È improbabile che otterremo tanti voti quanti nel 1948. I piccoli partiti sono favoriti dalla legge. I loro guadagni, speriamo, dovrebbero significare una significativa maggioranza per i quattro partiti del centro nel loro complesso.

I dati che ho visto indicano che i quattro partiti del centro insieme raccolgono solo il 51.4 per cento dei voti nelle elezioni del 1951-52, contro il 62.7 per cento del 1948. Questo indica uno stretto margine nelle elezioni di giugno?

Abbiamo fiducia che ci sarà una maggioranza significativa per i quattro partiti del centro. Abbiamo ora naturalmente una situazione differente rispetto a quella del 1948. Allora era questione decisiva. C’era la crisi economica e la paura di una vittoria comunista. Era subito dopo il colpo in Cecoslovacchia. La gente ha votato a favore o contro il blocco comunista. Noi cristianodemocratici abbiamo ricevuto i voti di molti anticomunisti che non erano nostri sostenitori. Alcuni di questi voti ora andranno ad altri partiti. I due principali partiti anticomunisti fuori dalla coalizione di centro sono monarchici e fascisti. I monarchici hanno ricevuto circa un milione di voti nelle elezioni del 1951-52 e i fascisti circa 1.700.000.

Alcuni osservatori credono che i monarchici potrebbero guadagnare in giugno mettendo in pericolo la maggioranza di centro. Il risultato, temono, sarebbe un’instabilità di governo di tipo francese. Pensa che il partito monarchico guadagnerà in giugno?

Crediamo che gli elettori italiani torneranno a una maggioranza democratica che renderà possibile un governo stabile in Italia. Pensa che i fascisti in futuro possano tornare ad essere una minaccia per la democrazia in Italia?

Il fascismo non ha possibilità a meno che non sia aiutato involontariamente dall’insufficiente comprensione da parte delle altre democrazie occidentali sul problema del territorio libero di Trieste.

Premier De Gasperi, molti osservatori credono che il blocco comunista a giugno avrà il 30-35 per cento dei voti come nel 1948 e di nuovo nel 1951-52. L’Italia ha avuto una ripresa economica sorprendente dal 1948, aiutata da più di 2 miliardi di dollari di aiuti americani per il dopoguerra. A cosa attribuisce il fatto che ci siano ancora 8 milioni di voti per il blocco comunista?

Le dirò quanto dissi ai vostri leader a Washington nel 1947. Dissi: «Se mi date lavoro per i nostri disoccupati o se accettate gli italiani che vogliono emigrare in America, potrò rinunciare agli aiuti economici».

Intende che la disoccupazione è la causa della forza comunista?

È solo una spiegazione. Forse se ne possono trovare altre. Ma credo che il problema principale sia la sovrappopolazione. Certamente abbiamo compiuto alcuni progressi, con l’aiuto americano. Ma non possiamo trovare abbastanza lavoro in Italia per occupare tutta la nostra gente. Una recente inchiesta parlamentare mostra che ci sono 1.300.000 disoccupati inseriti nelle liste ufficiali, più un numero considerevole di sottoccupati. A quanto so, il tasso di natalità italiano è ora inferiore a quello americano. Circa un milione di nuovi posti di lavoro è stato creato con il piano Marshall. Perché c’è un problema di popolazione? La nostra popolazione cresce di circa 400.000 unità l’anno. Circa 250.000 giovani ogni anno entrano a far parte della forza lavoro. Negli anni recenti siamo riusciti ad assorbire i nuovi lavoratori. Ma non siamo stati capaci di smaltire gli arretrati di persone che normalmente sarebbero emigrate. Almeno due milioni di persone ora in Italia sarebbero emigrate negli ultimi due decenni se non ci fossero stati il fascismo e la guerra. La media di emigrati fra il 1921 e il 1930 è stata di 260.000 persone l’anno. L’Italia ha sempre avuto emigrati, come voi in America sapete bene. Abbiamo bisogno di sbocchi per 350.000 persone l’anno. Attualmente circa 120.000 emigrano ogni anno, principalmente in America Latina e in altri paesi europei. Molto pochi possono andare negli Stati Uniti, molti meno di prima; dopo il McCarran Act meno di 6.000 l’anno . La ridotta emigrazione è aggravate dal ritorno degli italiani dall’Africa e da altri territori in conseguenza del trattato di pace. Abbiamo cercato di espandere l’emigrazione. Ma è un problema difficile, anche dove le porte sono aperte, come in alcuni paesi in America Latina. Oltre ai costi di trasporto, è costoso inviare emigrati verso paesi sottosviluppati che spesso li accolgono solo in cambio dei fondi per equipaggiare le campagne dove si possono insediare. Speriamo che l’unione europea renderà possibile per alcuni italiani andare in altri paesi europei a corto di forza lavoro. Non ci sono altre ragioni che spieghino la forza dei comunisti oltre alla sovrappopolazione? Per esempio, i sindacati comunisti possono usare molti edifici governativi come sedi e come centri ricreativi, un vantaggio che i sindacati liberi non hanno. Perché questi privilegi non sono eliminati, oppure concessi anche ai sindacati liberi? C’è una situazione legale da considerare. Abbiamo ereditato la situazione dal fascismo. Allora queste proprietà appartenevano ai sindacati di stato e a altri soggetti pubblici e dopo la guerra passarono legalmente all’unica confederazione sindacale allora esistente. Allora lavoratori comunisti, socialisti di sinistra, socialisti di destra e democristiani appartenevano tutti allo stesso sindacato. Il governo concesse loro le proprietà in affitto. Più tardi i leader non comunisti uscirono e fondarono i sindacati liberi. Ma i contratti di affitto degli edifici restarono a nome del vecchio sindacato che allora divenne interamente controllato dai comunisti.

Gli edifici saranno reclamati alla scadenza degli attuali contratti di affitto?

Questo è un problema che il nuovo Parlamento dovrà studiare.

È sua intenzione prendere delle misure per escludere i comunisti dai consistenti sussidi che ora ricevono dal controllo dell’agenzia di commercio con i paesi comunisti?

Il problema è che i paesi comunisti, come sa, hanno monopoli di stato. Nel commerciare con i paesi democratici, possono comperare e vendere attraverso qualsiasi ditta di export-import privata che poi può guadagnare commissioni di intermediazione.

Alcuni funzionari americani credono che l’economia italiana potrebbe espandersi più rapidamente per assorbire molti dei disoccupati. Cosa ne pensa?

Facciamo quello che possiamo. Come sa, abbiamo un ampio programma di sviluppo in corso nel sud. Stiamo cercando di dare terre ai contadini frammentando le grandi proprietà, confiscando le terre incolte, costruendo canali di irrigazione, argini e così via. È un processo lento. Per risistemare i contadini bisogna rivendicare le terre, costruire case e nuove strade, installare i servizi. Intendiamo continuare questo programma e ampliarlo. Ma non credo che si possa trovare lavoro per tutti i disoccupati senza che l’emigrazione contribuisca a ridurne il bisogno. Oltre alla disoccupazione nelle città, a quanto capisco, l’Italia ha il problema di molti contadini sottoccupati e senza terra. Quanti di questi hanno ottenuto delle terre fino ad ora con la riforma agraria? Il nostro progetto di riforma agraria renderà disponibili per la redistribuzione ai contadini circa 700.000 ettari. Di questi, circa 177.000 ettari sono stati distribuiti. Circa 38.000 famiglie sono state trasferite su queste terre.

Intende introdurre una nuova legge nel prossimo parlamento per estendere la riforma oltre i 700.000 ettari finora espropriati?

Sì, ma la forma legislativa non è stata ancora decisa.

Recentemente diversi comitati americani, indagando sugli aiuti americani all’Europa, hanno affermato che l’espansione industriale e la libera impresa in Italia sono ostacolate dai monopoli italiani, privati e pubblici. Parte delle critiche si è concentrata sull’impresa pubblica chiamata IRI. Pensa che le fabbriche dell’IRI dovrebbero essere restituite alla libera impresa?

L’IRI non agisce in regime di monopolio. È stata fondata nel 1933 come «ospedale» per ditte private andate in bancarotta. Poi è stata trasformata in un organo permanente per esercitare il controllo di gruppi finanziari in importanti settori dell’economia nazionale e nell’industria di guerra. La distruzione degli impianti e l’eccesso di forza lavoro dopo la guerra hanno aggravato la situazione dell’IRI. Di qui l’enorme difficoltà di riportare le imprese dell’IRI sul libero mercato. Molto è stato fatto. Alcuni trasferimenti di impianti sono stati fatti. Ad altri è stata data una nuova forma e organizzazione. Finito questo lavoro potremo decidere quali imprese lo stato può mantenere e quali dovranno essere vendute a imprese private.

L’Italia accoglie con favore gli investimenti esteri?

Certamente. Abbiamo grande bisogno di capitali di investimento.

Oltre alla preoccupazione per la posizione privilegiata dell’IRI, gli investitori privati esteri hanno la sensazione che la legge italiana scoraggi gli investimenti. Mi dicono che annualmente si può esportare dall’Italia solo il 6% dei profitti. Avete in progetto di modificare queste leggi?

So che la legislazione italiana è fra le più favorevoli per gli investimenti stranieri. Secondo un provvedimento speciale già approvato da un ramo del Parlamento, integrato con il trattato commerciale e di amicizia con l’America, i due governi si impegnano a concedere il trattamento della «nazione più favorita» al trasferimento dei capitali.

L’Italia ha ancora bisogno degli aiuti americani?

Speriamo che proseguano. Ma siamo d’accordo con il principio del «trade not aid». Il presidente Truman, ad esempio, ha aperto il mercato americano ai nostri formaggi. Più commerceremo, meno avremo bisogno di aiuti in dollari. L’Italia sta ricevendo 80 milioni di dollari in aiuti economici statunitensi quest’anno fiscale.

 Ma funzionari americani dicono che gli acquisti militari americani in Italia e le spese delle truppe americane portano più di 200 milioni di dollari l’anno. Crede che questo consentirà all’Italia di fare senza aiuti economici a partire dal 1° luglio? 

Secondo i nostri dati, pagamenti in dollari per acquisti militari americani in Italia, inclusi gli ordinativi NATO, negli ultimi tre anni fiscali ammontano a circa 123 milioni. Le stime per il 1953-54 indicano pagamenti per 119 milioni. Questo è molto diverso dai 200 milioni annui di cui parla lei. Quindi, l’Italia continuerà nel suo sforzo per aumentare l’occupazione e nel suo sforzo finanziario per la difesa comune, non può fare a meno degli aiuti internazionali finché la situazione internazionale non consentirà una vera espansione delle esportazioni, in particolare verso paesi con valute forti. 

Molti leader europei sono stati in visita a Washington recentemente per conoscere la nuova amministrazione. Lei non è stato negli Stati Uniti dopo il 1947. Sta pianificando un viaggio? 

Si è discussa la questione. Ma, come sa, ho di fronte un periodo molto intenso, con le elezioni in vista. Se la mia presenza fosse necessaria, naturalmente, non esiterei a partire.

(Archivi Storici dell’Unione Europea, ASUE – Fondo Alcide De Gasperi, Interviste, 38; anche in Affari Esteri, X, b, 6; “Il Popolo”, 12 maggio 1953)